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Il 5 giugno al Mudec di Milano ho partecipato alla presentazione del libro di Dijana Pavlović Irriducibili. Alterità dell’anima zingara: attrice, attivista, scrittrice e politica, Dijana è nata nel 1976 in Serbia, si è trasferita nel 1999 a Milano ed è fondatrice del Movimento Kethane, che da anni si batte per l’autodeterminazione delle comunità rom e sinti.

Il libro pubblicato quest’anno riunisce i pensieri dell’autrice, che dopo vent’anni di attivismo e politica, sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e analizzare dall’inizio tutto il percorso fatto: interviste, testimonianze, ricostruzioni passate e presenti la supportano nella sua riflessione, nella sua riconsiderazione dei motivi e delle contraddizioni portate con orgoglio, seppur dolorose e pesanti, che l’hanno portata fin qui, fino ad oggi.

Ricorda Milano all’inizio degli anni 2000 quando osservava e vigilava sugli sgomberi e i roghi dei campi rom, quando le persone la chiamavano di notte per chiederle aiuto affinché cercasse un accordo con le forze dell’ordine. Si sofferma oggi sul perché sia ancora necessario muoversi, resistere, non perdersi: il nostro paese non vede, non considera, rigetta, esclude e isola la comunità rom; imperano ovunque solidissimi pregiudizi, odio perenne, discriminazioni storiche e vera e propria violenza.

Il testo non vuole essere un’analisi o una decostruzione di tutti i cliché legati alle popolazioni rom, vuole semplicemente osservare come la società, da sempre, abbia voluto non capire queste persone: costringerle a vivere in modi per loro innaturali, ostacolarle nel loro nomadismo attraverso leggi nazionali e sovranazionali di modo da limitarle e renderle stanziali, annullare la loro riproduzione attraverso sterilizzazioni forzate, imporre la loro integrazione, inclusione, assimilazione, ignorando e deridendo la loro cultura linguistica, musicale, sportiva, teatrale.

Il tentativo della Pavlović è quello di costruire una conoscenza: si chiede come sia possibile che, nonostante una vastissima bibliografia rom, scritta soprattutto da gagè (parola con la quale i rom definiscono i non-rom), il nostro modo di vederli, di relazionarci a loro non sia ancora cambiato. Perché rom e sinti svolgono eternamente la funzione sociale di capri espiatori? C’è qualcosa dentro di noi che provoca questa reazione? si domanda Dijana.

Il sottotitolo risolve la questione: è doveroso vedere l’alterità dell’anima zingara. Si tratta di un modo di intendere il mondo e le sue relazioni da sempre deriso, massacrato e cancellato. Il potere nelle comunità rom e sinti non esiste, si vive su un livello piano, non in una piramide; la parola futuro non è pervenuta, si costruisce se stessi e la propria vita guardando indietro, al passato, conservandone la memoria; si impara a sopravvivere, a non sporcarsi, a restare spiritualmente nomadi nonostante tutto.

Conclude Dijana Pavlović: «Racconto e scrivo da vittima perché io sono una vittima» di immortali stereotipi, di mille anni di persecuzioni e di un genocidio solo apparentemente concluso.

È stato molto emozionante e devastante per me aver fatto la sua conoscenza e aver assistito alla presentazione di un libro così particolare, specifico, che a causa della sua tematica tende a selezionare, escludere, tenere lontani tutti coloro che non vogliono avere a che fare con gli “zingari”, neppure attraverso il mero e passivo ascolto. Essendo quindi il pubblico solidale alla causa, nel momento dell’evento aperto al pubblico, ho sentito la necessità di raccontare brevemente la mia storia: sono di origini rom da parte di madre, mia nonna era rom. “Necessità” non è la parola corretta: credo fosse più impellente la curiosità di sentirmi mentre mi dichiaravo rom, mentre spiegavo che, seppur non avessi mai vissuto in un campo, conoscevo quella realtà, che nonostante i miei occhi verdi e i capelli biondi sono rom; che mi diverto, mi arrabbio e provo disgusto quando le persone utilizzano quotidianamente espressioni del tipo: vestirsi da zingaro, sembrare uno zingaro, rubare come uno zingaro. Raccontavo di come ogni giorno nella metropolitana di Milano durante un tragitto di dieci minuti, almeno sette volte, siamo costretti ad ascoltare la voce automatica che raccomanda di stare attenti alle borseggiatrici e ai borseggiatori, che nel senso comune sono tendenzialmente “zingari”. In tutte queste occasioni mi ritrovo a dover reprimere il mio istinto, che vorrebbe invece urlare e gridare che anch’io sono rom, sono la persona dalla quale la voce del servizio dei trasporti urbani vi mette in guardia e che vi avverte di tenere lontano; anch’io sono la persona che secondo alcuni ruba i bambini, non segue le regole, non paga i biglietti, chiede l’elemosina per strada, è sporca, lurida, con gonne lunghe e capelli neri. Vorrei chiedere a chi comanda come mai non ci mettono in guardia dai molestatori o dagli stupratori, che ogni giorno costringono le donne, le ragazze e le bambine a adottare accortezze di ogni genere per evitare o tentare di gestire al meglio uno sguardo, un gesto o un atteggiamento sgradito, non reciproco, se non addirittura violento.

Non mi rendo sempre conto di essere rom, non ne sono sempre consapevole a livello conscio, ma ci sono aspetti dell’essere rom, dell’avere un’identità che contempla necessariamente anche questa origine, che sono sicura mi abbiano condizionata in modi che ancora non comprendo lucidamente: come gestisco le relazioni con gli altri, come interagisco con le persone, la mia attenzione nel cercare di non offendere, deridere o soltanto incupire chi mi sta intorno, un costante senso di essere nel posto sbagliato, credo derivi anche da quello che sono, dalla mia parte rom, dalla storia della comunità rom.

Ho una sorella gemella, siamo molto diverse: lei è più scura, ha capelli castani e occhi marroni. Molto spesso, anche scherzando, riflettiamo sul fatto che, se fossimo nate qualche decennio fa, ci saremmo ritrovate insieme in un campo di concentramento con nostra madre, in attesa di un medico nazista che facesse esperimenti su di noi. È un pensiero oscuro e sinistro, che però ci ricorda quello che ci avrebbe inevitabilmente atteso, il luogo che qualcuno in famiglia non ha mai lasciato, quello che alcuni oggi sperano riaccada e ci ricorda quindi tutto il male al quale eravamo destinate e che

rifiutiamo assolutamente di agire. Essere stati storicamente vittime di genocidio e di millenari pregiudizi, che ancora oggi insistono nel perpetuare un’idea della comunità rom distorta, immutabile e falsa, credo abbia, da un punto di vista generazionale, informato e educato la mia famiglia.

Devo ancora capire come imparare ad accettare pienamente questa eredità familiare, che apprezzo, ma che con intenzionalità tralascio, escludo e non dichiaro nella mia vita quotidiana. Per adesso mi limito in ogni occasione e su ogni mezzo di trasporto pubblico a sedermi vicino a persone rom o sinti: è mio il gesto di vicinanza e ribellione.