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da L’Altravoce il Quotidiano

Non è usuale raccontare la Resistenza attraverso i libri delle scrittrici partigiane. È quello che fa Annachiara Biancardino nel suo libro Scritture partigiane – La Resistenza nella letteratura d’autrici, Stilo Editrice. Un libro originale, che invoglia a leggere o rileggere le scrittrici della Resistenza, di cui lei ci parla. Attraverso i romanzi quali L’Agnese va a morire di Renata Viganò, il Diario di Ada Prospero, Raccontiamoci com’è andata di Gina Lagorio, Tetto Murato di Lalla Romano e Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, l’autrice analizza e interroga le forme di partecipazione delle donne alla Resistenza e i motivi che le hanno spinte a scegliere di unirsi alla lotta partigiana. Romanzi, che affondano le radici nella vita delle loro autrici, scritti tra «la grande stagione memorialistica partigiana» del dopoguerra, quando tra chi aveva partecipato alla lotta partigiana si diffonde l’«urgenza di raccontare la guerra civile» e «fissare sulla carta i propri ricordi», e «i tardi anni Cinquanta» quando «ciò che inizialmente era cronaca comincia a diventare letteratura» per «comunicare l’essenza ideologica di quella battaglia anche attraverso il ricordo delle vite che per essa si sono sacrificate». Le scrittrici partigiane ci insegnano che «la lotta partigiana non è solo una questione di eroismo militare, ma soprattutto di resistenza», «non glorificano il conflitto» ma scelgono di «descriverlo come un’esperienza umana» fatta di solidarietà tra donne, di «episodi bizzarri» come l’organizzazione di matrimoni tra partigiane e partigiani in un «clima di spensieratezza», di «scene di vita quotidiana», riunioni, conversazioni private, momenti di vita domestica come provvedere al cibo, cucinare e prendersi cura dell’altra/o, come fa Agnese, ribattezzata “mamma Agnese”. È la “Resistenza senza armi”, non violenta, comune a molte donne coraggiose che «mettono a disposizione la propria casa, accolgono e nascondono qualcuno, lo sfamano, gli prestano assistenza», esponendosi «al pericolo di una perquisizione, alla deportazione del capofamiglia e distruzione dell’abitazione». Atipico in questo panorama è il romanzo “introspettivo” di Lalla Romano. Tutte raccontano la Resistenza come “scuola di emancipazione” per le donne ed è Alba de Céspedes che narra la “frustrazione” sua e di molte donne, dopo la Liberazione, per «il mancato riconoscimento della partecipazione femminile alla Resistenza e la mancanza di una vera emancipazione». Protagoniste dei romanzi, spesso, sono le “staffette” o le “mater dolorose”, donne il cui antifascismo nasce «nel segno del lutto» dopo l’uccisione di un figlio, di un marito (come per Agnese), di un padre o di un fratello. In quanto donne vengono sospettate, più degli uomini, di tradimento col nemico, perché «ritenute più sensibili ai condizionamenti del cuore». Ed è il cuore che spinge Ada Prospero alla “pietas” verso i nemici che «restano comunque esseri umani», «perché sono anche loro dei figli di altri, ma pur figli». Scrivere per comunicare gli ideali della Resistenza alle generazioni successive è quello che spinge Prospero nel 1957 e Lagorio nel 2003, per preservare un ricordo che, per la prima, rischia di essere dimenticato e, per la seconda, distorto e cancellato dai «nuovi fascismi» che «si stagliano all’orizzonte».

Il libro si conclude con tre giovani scrittrici della letteratura “postmemoria”, nata nell’ultimo decennio del ’900. Simona Baldelli con il romanzo Evelina e le fate si ispira alla memoria della madre, Paola Soriga con Dove finisce Roma, storia di una staffetta adolescente, si ispira alle “antenate”, alle “scrittrici partigiane” e Nicoletta Verna con il suo romanzo storico I giorni di vetro. Tornare alle scrittrici partigiane, aiuta a pensare il presente.