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da Il Post

«Deborah Feldman, autrice di “Unorthodox”, sostiene che in Germania l’ebreo perfetto, l’ebreo feticcio, sia colui che aderisce senza sbavature al modello di identità eretto sui due pilastri riconducibili alla colpa tedesca: la Shoah e Israele»

Nel 2012 mi passò sotto il naso l’esordio di Deborah Feldman. Si intitolava Unorthodox e raccontava la storia del suo abbandono della comunità chassidica dei Satmar. Qualche tempo fa ho deciso di contattarla e di parlare con lei di quello che sta succedendo in Germania rispetto a Israele e al mondo ebraico. Ai tempiin cui il libro uscì ed entrò nella lista dei New York Times Best Sellers, ero una donna separata che faceva avanti e indietro tra un figlio alle medie e una madre anziana in galoppante declino a cui volevo evitare di essere sradicata da casa sua, anche se quella casa stava a Monaco, la capitale del movimento creato da Hitler.

Era strano: anch’io avevo pubblicato un libro autobiografico misurandomi con una certa spietatezza con quella madre che, già allora, era il mio unico ingombrante legame di figlia, però quel legame non mi sono mai sognata di spezzarlo. I miei, approdati in Germania come due relitti, con il mio arrivo formarono un microrganismo a sé, pur essendosi già ricostruiti una vita grazie a un elegante negozio di scarpe italiane e, a partire da quello, tutto il resto: la reputazione, alcune vere amicizie, le occasionali frequentazioni mondane e, infine, i ritorni di mio padre in sinagoga, non per riconciliarsi con il dio dei padri, bensì per santificare, due volte l’anno, i suoi genitori e fratelli ridotti in nulla senza che l’onnipotente fosse intervenuto.

Secondo i Satmar, invece, non aveva risparmiato il suo popolo poiché questo aveva perduto la via. Chi era scampato doveva perciò seguirne i precetti con un rigore mai conosciuto. Nulla poteva essere uguale a prima della Shoah, neanche quei chassidim vestiti come nell’Est-Europa del Settecento però a Williamsburg, Brooklyn. Niente curava i traumi dei sopravvissuti, né l’osservanza più intransigente, né la capacità di assimilarsi sino a scomparire.

È questo che credo di aver capito dal confronto con Deborah Feldman, rivedendo la mia storia agli antipodi. In Germania crescevo a pane e prosciutto, con le amiche del liceo pubblico prendevo il sole in topless all’Englischer Garten e andavo a manifestare contro l’energia atomica, eppure avevo sempre attaccati i fili della mia vita strappata al passato di morte. A casa si taceva di ciò che era indicibile, e vigeva un silenzio simile a casa dei nonni che avevano cresciuto Deborah. L’annientamento del loro mondo in Transilvania era solo l’ultima delle persecuzioni tramandate dalla tradizione ebraica, una catena simile a un destino che imponeva di fare figli per colmare la perdita dei milioni scomparsi in Europa.

Non mi è mai stato imposto un tale fardello, neanche dovendomi occupare del funerale di mia madre e di tutti gli obblighi trascinatisi per anni finché potei chiudere nuovamente con la Germania proprio negli anni in cui Feldman, libera di reinventarsi, approdava a Berlino, dove non la conosceva nessuno, ma nell’anonimato di quella grande città straniera si sentì libera. Anche oggi, che è famosa e molto contestata, me lo racconta trasmettendo il senso pieno di quel nuovo inizio: «Non avevano neanche tradotto il mio libro, ma io pensavo: in fondo è la storia di una che scappa da una setta, una storia tipicamente americana, che gliene frega ai tedeschi?».

Dopo molti rifiuti, si trovò un piccolo editore svizzero, e questo magari dava una prima indicazione del fatto che con i Satmar i tedeschi avessero un problema supplementare. Unorthodox, in ogni caso, cominciò a vendere sino a entrare in classifica anche in Germania. Feldman fece presentazioni e interviste, diventò la prova vivente che proprio la Germania, il paese dove il nazismo era nato e cresciuto, poteva rivelarsi la terra promessa per quella giovane ebrea americana dal tedesco privo di accento. Alla fine arrivò anche la serie ideata insieme a Anna Winger e Alexa Karolinski, tutte donne, tutte ebree, tutte based in Berlin.

Come pressoché chiunque in Italia anch’io vidi la serie ispirata alla sua storia quando Netflix la lanciò. Eravamo in lockdown, attaccati come mai prima alle serie capaci di immergerci nella vastità di mondi senza mascherine, code distanziate, ambulanze ammassate davanti al pronto soccorso.

Amplificate da quella fame di evasione, Unorthodox rimescolava in me emozioni in conflitto: la corda profonda toccata dallo yiddish, la rabbia verso l’ebraismo ortodosso – quello non “ultra” – covata sin dal funerale di mia madre quando mi ero detta che nulla di ciò che amavo – i corpi in preghiera, i canti liturgici – compensava l’esclusione e la separazione delle donne. E così, parteggiando per la protagonista che le aveva subite e rifiutate nel modo più radicale, mi salì una voglia matta di andare a Berlino. Proprio in quella Berlino, anche se i nuovi amici di Esty – la Deborah reinventata della serie – così cool e carini nell’iniziarla alle libertà della metropoli multi-culti recitavano la parte più debole della fiction.

Non ricordo quando avessi cominciato a giocare con l’idea, fin lì impensabile, di poter rimettere piede in Germania. Un momento cruciale risaliva a quando qui avevamo il Salvini dei “porti chiusi” e loro ancora Angela Merkel, che davanti alle masse di profughi che chiedevano di essere accolti aveva dichiarato: «Ce la possiamo fare!». Da decenni l’Italia diventava sempre più retrograda e razzista mentre in Germania le persone di origine straniera erano politici accademici scrittori giornalisti dottori e persino i due scienziati nati in Turchia, che stavano sviluppando il miglior vaccino anti-Covid. E poi a Berlino ci finivano tutti: amici italiani, amici tedeschi, figli di amici, conoscenti che prendevano casa a un costo molto più basso rispetto a Roma e Milano, per non dire Londra o Parigi.

Forse un altro momento cruciale, però, stava nella parte berlinese della serie, in una scena così potente da oscurare le debolezze di ciò che viene prima e dopo. Un giorno Esty segue i nuovi amici al lago più frequentato in città. Indossa ancora gli abiti con cui è fuggita, caldissimi nel clima estivo, mentre i ragazzi sono già pronti a farsi il bagno in quell’acqua dove si specchia la natura verdissima. Sull’altra sponda si vedono le grandi ville novecentesche.

È già tutto un paradiso di promiscuità, proibito, quando il giovane tedesco che più la attrae fa una battuta rivolta tanto a Esty quanto agli abbonati di Netflix: qui al Wannsee si è tenuta la conferenza per organizzare le deportazioni. L’incantesimo è rotto, gli amici si tuffano perché «un lago è solo un lago», Esty rimane sulla riva, da sola. Ma poi avanza e, lentamente, si immerge levandosi la parrucca che lascia cadere nel Wannsee e galleggia tutta vestita salvo per i capelli rasati alla maniera delle mogli dei Satmar o delle detenute dei campi nazisti. La forza visiva di quella scena mostra e non dice: una storia al singolare, la storia di Esty, che risignifica la Storia, un presente dove esiste la libertà di buttare il passato, tutto il passato, nel fondo scuro di un lago.

E se una fiction è solo fiction con tratti da fiaba, in quella fiaba tedesca abbiamo creduto. Almeno io. Cinque anni fa appariva persino banale che l’eroina chassidica si ritrovasse in una comunità di giovani incontrati in un conservatorio ispirato a uno esistente: la Barenboim-Said Akademie creata dal direttore d’orchestra israelo-argentino Daniel Barenboim e da Edward Said, il massimo intellettuale palestinese. Sarebbe possibile, oggi, avere quel cast di ebrei – diasporici e israeliani – e arabi, compreso un palestinese? O fare uscire la serie senza grandi pressioni censorie e proteste furiose?

Eppure in quel passato recente Berlino si presentava come confluenza tranquilla di migrazioni, ricettacolo di diaspore mediorientali – siriana, iraniana, palestinese e, sì, pure israeliana –, punto d’incontro tra est e ovest dove chi era venuto per la libertà o il lavoro si incrociava nei discount con gli expat scappati dal deserto culturale delle metropoli per ricchi. Cos’avrebbe detto Walter Benjamin che, esule a Parigi, la definì «capitale del XIX secolo», nel vedere la sua Berlino assumere le sembianze di «capitale del XXI secolo», almeno in Europa?

La filosofa Susan Neiman, una delle prime americane giunte a Berlino, aveva creduto così tanto nell’inaudito di una nazione capace di prendersi la responsabilità dei propri crimini che, ancora nel 2019, pubblicò il saggio Learning from the Germans. Oggi invece è molto allarmata dalla visione di una «Germania sul crinale», come ha titolato la New York Review of Books un suo articolo sul rapporto tra i tedeschi e la questione israeliana.

Le interviste di Feldman risalenti a quegli anni somigliavano ancora a dichiarazioni d’amore reciproco. La Germania amava l’ebrea fuggiasca che l’aveva prescelta, la Deborah rinata a vita nuova ricambiava con fiducia e passione: dichiarando quanto nella lingua tedesca le risuonasse quella materna, quanto la cittadinanza ottenuta grazie a una bisnonna bavarese le sembrasse un atto di riparazione, quanto ormai si sentisse berlinese e, sì, anche tedesca.

L’innamoramento respinge il più a lungo possibile ogni colpo della disillusione, valuta il buono superiore al cattivo, le forze contrarie più robuste della rimonta del razzismo e del nazionalismo: ma anche a uno sguardo come il mio, distante, allenato alla diffidenza, la Germania di cinque anni fa appariva salda nel suo essere una democrazia matura e una società aperta. Tra quei segni positivi contavo anche il dibattito sulla «cultura della Memoria» diventata, secondo lo storico australiano Dirk Moses, il nuovo «Catechismo tedesco».

Quel dibattito, nell’estate del 2023, si è arricchito dell’ultimo libro di Feldman – Judenfetisch, “ebrei feticcio”: il suo primo scritto in tedesco e anche il primo a non raccogliere soltanto benevolenza. Il giornale delle comunità ebraiche lo ha definito «tossico». Nelle recensioni si fa largo anche una critica che punta su un’incoerenza estrinseca al libro: Feldman sostiene che la Germania premi le voci ebraiche che, in una sorta di performance sadomaso, bacchettano i tedeschi come un popolo che non potrà mai cambiare, ma poi che fa? Sta in tv e dappertutto, più celebre di tanti contro cui polemizza. A me, invece, la lettura di Judenfetisch ha dato l’impulso di mettermi in contatto con lei.

La connessione era instabile, così siamo passate a parlarci come in una telefonata d’altri tempi, pur non essendoci mai incontrate. Lo schermo nero annulla l’equivoco di vedere coordinate significative nella stanza dell’altro: lei nel suo quartiere popolare multietnico, io in una cittadina lombarda, che non le dice niente.

«Dove te ne andresti se decidessi di fare le valigie?», le ho chiesto.

In yiddish, la lingua in cui lei e mio padre sono cresciuti, l’ebreo con la valigia a portata di mano, anche se radicato in un luogo, si chiama valiske.

«Ne discutiamo ogni giorno», mi ha risposto, riferendosi agli amici con cui ha fatto comunità a Berlino. Nel breve silenzio dell’attesa, visualizzo una mappa dove i paesi da depennare sono sempre di più. Feldman ha in mente il nord, le piacciono gli inverni newyorkesi della sua infanzia, le giornate un po’ depressive durante le quali si legge molto, e poi calcola pure il cambiamento climatico.

«Non hai idea quanto mi odino qui».

Provo a dirle che c’è anche chi la ama proprio perché non si censura. «Eh», risponde «ma tra quelli quasi nessuno è “biodeutsch”».

Quando lo sentii la prima volta, quel neologismo era un modo ironico per chiamare i “veri tedeschi”, ma poi se l’è preso la destra a cui mancava giusto un vocabolo aggiornato e corretto per ristabilire un discrimine su base etnica. È difficile stare dietro a una lingua vivendo dove ne parlano un’altra.

«Sai», le ho detto, «quando me ne sono andata dalla Germania, nei primi anni ’80, il discorso sulla Shoah era giusto agli albori, innescato dalla serie tv Olocausto che oggi sembra vecchia sino al ridicolo. Ma lo avvertivo già allora, il peso insopportabile di dover rappresentare la figlia di sopravvissuti. La scelta dell’Italia c’entrava con il desiderio di vivere come una persona normale, la dimensione che tu hai creduto di trovare a Berlino. E quando nel 1989, io che ormai mi consideravo legata solo alla lingua e letteratura tedesca, compresi che la mia fiaba meravigliosa, l’esordio come poeta presso l’editore di Paul Celan e Walter Benjamin, non era immune dall’interesse di mettere in catalogo esempi di una cultura ebraico-tedesca finalmente risorta, mi sentii così strumentalizzata da passare d’istinto a scrivere in italiano».

Leggendo Judenfetisch è chiaro che per Deborah Feldman, la persona ebrea, l’individuo con la sua storia, le sue idee e appartenenze plurali, in Germania è ridotta a oggetto di proiezioni diventando, appunto, feticcio. Nel filosemitismo che domina il presente, Feldman vede il rovescio dell’antisemitismo passato. Nel compito morale di scovarlo e combatterlo, un ossessivo rito autoreferenziale. Elencando il numero sorprendente di convertiti in posizioni di potere o rappresentanza, Feldman sostiene che in Germania l’ebreo perfetto sia colui che aderisce senza sbavature al modello di identità eretto sui due pilastri riconducibili alla colpa tedesca: la Shoah e Israele. È una tesi che ha scritto e pubblicato prima del 7 ottobre 2023 e della guerra su Gaza, cosa che rende il suo libro ancora più irricevibile o sciaguratamente profetico, a seconda dei punti di vista.

È vero che in Germania – a partire da Berlino – la polizia è intervenuta contro le proteste per Gaza con tempestività e durezza superiore agli Stati Uniti di Biden o all’Italia di Giorgia Meloni: vietando presidi indetti da gruppi pacifisti israeliani, arrestando dimostranti con la kippah, non risparmiando le manganellate in primo luogo a chi avesse un aspetto “islamico” e dunque sospetto di islamismo pro-Hamas. Cancellato l’invito alla Buchmesse della scrittrice palestinese Adania Shibli che risiede a Berlino, ridotte ai margini le voci dei palestinesi viventi in Germania. Cancellato il conferimento del premio Hannah Arendt a Masha Gessen, dopo un suo articolo sul New Yorker dove si era spinta a paragonare la condizione a Gaza a quella dei ghetti ebrei. Il paragone era contestabile, salvo che proprio Hannah Arendt, l’autrice di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, esprimeva idee ben più offensive sulla Shoah e su Israele.

Secondo Emily Dische-Becker di Diaspora Alliance, un network internazionale che si propone di contrastare sia l’antisemitismo che le sue distorsioni, circa un terzo degli eventi annullati in Germania ha riguardato ebrei critici di Israele. Tra questi quelli dell’artista Candice Breitz, della filosofa Nancy Fraser e del sociologo Moshe Zuckermann, accusato di antisemitismo.

Il verdetto su chi sia da ritenersi antisemita spetta al Beauftragter der Bundesregierung für jüdisches Leben und den Kampf gegen Antisemitismus – ossia il commissario del governo federale per la vita ebraica e la lotta all’antisemitismo – affiancato dagli analoghi commissari nei maggiori Länder. Felix Klein, il commissario supremo, è stato il primo relatore a ritirarsi da una conferenza contro l’antisemitismo a Gerusalemme vedendo che tra gli ospiti invitati dal ministro della diaspora israeliano figuravano troppi politici dell’estrema destra europea.

Sarebbe persino comico, se la situazione tedesca non avesse dei tratti kafkiani: né Klein né gli altri commissari “per la vita ebraica” hanno origini ebree. Sono insomma dei “Biodeutsche” a decretare chi è un ebreo come si deve, dando ragione alla tesi polemica di Feldman. E lo decidono in qualità di funzionari statali, poiché la Repubblica federale considera Staatsräson, “ragion di Stato”, la tutela della vita ebraica in Germania. E in Israele. Così a giugno 2024 è stata approvata una legge sulla cittadinanza che dai richiedenti esige una dichiarazione sul diritto d’esistenza dello Stato ebraico, a novembre una risoluzione promossa da tutti i partiti e votata anche da AfD, Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra, per creare ulteriori strumenti contro l’antisemitismo. Pressoché l’intero spettro politico si è dunque trovato concorde nel porre la Staatsräson al di sopra del Grundgesetz, la Costituzione, che al pari della nostra aveva rifondato la Germania sui diritti inalienabili della persona.

La minaccia antisemita viene individuata principalmente a sinistra, travestita da antisionismo, e viene raccontata come un problema d’importazione legato alla presenza musulmana, e questo anche se nelle statistiche impostate secondo tali criteri la metà degli episodi di antisemitismo proviene dall’estrema destra sempre più violenta. Dopo che non solo AfD ma anche Friedrich Merz, il cancelliere, leader della CDU, ha fatto campagna elettorale promettendo l’espulsione di ogni immigrato in odore di “islamismo”, all’inizio di aprile le autorità di Berlino hanno consegnato il foglio di via a quattro studenti occidentali attivi nelle proteste per Gaza, accusandoli di essere “sostenitori di Hamas” (espulsione sospesa a metà del mese scorso). Qualche giorno fa la Germania – insieme all’Italia – si è distinta come il più potente membro dell’Unione Europea a votare contro la decisione maggioritaria di sospendere l’accordo commerciale con Israele per sanzionare il blocco degli aiuti per Gaza.

A spingere la politica tedesca a criticare finalmente l’operato israeliano è stato solo l’incombere della morte per fame di migliaia di bambini. Ma tutti ribadiscono che la speciale lealtà verso Israele rende doveroso proseguire i colloqui a porte chiuse, come se le esortazioni dei “bravi tedeschi” potessero avere un peso maggiore di quelle di Trump, l’amico cattivo, che attualmente dà più valore all’aereo di lusso del Qatar che ai terreni beachfront di Gaza.

Anche se ormai è esplicito che Israele è pronto a rioccupare la Striscia con la pulizia etnica e a sacrificare gli ultimi ostaggi, la posizione tedesca resta tra le più morbide. Ma un mese fa sarebbe stato impensabile che, a Berlino, una rappresentanza nutrita di israeliani si sintonizzasse con altre città europee nel chiedere, in solidarietà con gli attivisti a Tel Aviv o alla frontiera di Gaza, STOP ARMING ISRAEL e STOP THE GENOCIDE, senza che la polizia accorresse per far sparire quei cartelli “antisemiti”.

Pochi giorni prima della nostra conversazione, Feldman era tornata da un viaggio nei territori palestinesi, scortata da alcuni attivisti di B’Tselem, la principale ong israeliana per i diritti umani. C’era andata durante il cessate il fuoco a Gaza, quando la violenza dei coloni e dell’esercito si era spostata sulla Cisgiordania. Ma non si era ancora ripresa da ciò a cui aveva assistito: «Mi aspettavo dei fondamentalisti fanatici. Però avevo un’idea ingenua di questi coloni, gente che lavora la terra, la terra dei Padri. Non questi ragazzi armati a cavallo che passano le giornate a fare raid nei villaggi palestinesi. Come nel Wild West, come se a muoverli fosse soltanto la possibilità di farlo: distruggere, scacciare, o peggio». Negli insediamenti “legali” in realtà si coltiva anche e ci si vive come in una rete di gated communities, ma questo non rende meno suggestiva l’intuizione di Feldman. Non è plausibile che le ideologie delle destre, riferimenti religiosi compresi, servano da copertura all’imposizione della “legge del più forte”, del Wild West, appunto?

Deborah Feldman prevede che Israele avrà una maggioranza religiosa, composta da ultraortodossi e ultrasionisti religiosi. Gli uni chiusi nelle loro comunità, gli altri nelle colonie, si odiano a vicenda: ma quando il processo autoritario in corso instaurerà una teocrazia ebraica (o una democratura teocratica), si attenuerà la spaccatura tra quelli che attendono il Messia studiando e pregando e quelli che, riconquistando ogni sasso dell’antica Israele, vogliono letteralmente spianargli la strada. Questo credeva Deborah Feldman, prima di avventurarsi oltre il Giordano.

Pochi giorni dopo la nostra conversazione, Feldman è stata a Monaco, la mia città, nella grande, acusticamente perfetta “Carl-Orff-Saal”, dove portavo mia madre a sentire quella musica classica che la incantava e placava. Ci è andata per presentare un concerto di raccolta fondi per Gaza insieme alla giornalista tedesco-palestinese Alena Jabarine. Dopo di loro il Nasmé Ensemble, composto da cinque musicisti palestinesi, si è esibito assieme a Michael Barenboim, primo violino e figlio di Daniel.

Michael Barenboim, che porta avanti il lavoro della West-Eastern Divan Orchestra e insegna alla Barenboim-Said Akademie di Berlino, è una delle voci a cui i media tedeschi concedono più spazio per esprimersi a fianco dei palestinesi, forse per il suo prestigio internazionale, forse perché è di casa a Berlino. L’evento è stato promosso a scopi umanitari, ossia non troppo apertamente politici, e non ha subìto cancellazioni. La fiaba è finita, la realtà si inventa qualcosa per resistere.

(*) Nata nel 1964 a Monaco di Baviera, in Germania, in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre quarant’anni. Ha esordito in tedesco con la raccolta di poesie Ins Freie (Suhrkamp, 1989), ma dal 1997 scrive in italiano. Con La ragazza con la Leica (Guanda, 2017) dedicato alla fotografa Gerda Taro, ha vinto il Premio Strega 2018.