Il popolo iraniano vittima di due violenze
Maysoon Majidi*
17 Giugno 2025
da il manifesto
I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare
In un sud-ovest asiatico attraversato da tensioni sempre più profonde, il popolo iraniano si ritrova ancora una volta intrappolato in una storia che non ha scritto. Senza voce nei processi decisionali, senza alcun potere sui giochi di forza regionali e internazionali, milioni di persone diventano bersaglio passivo di dinamiche che non hanno nulla a che vedere con la loro sicurezza o il loro futuro.
I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare. Nonostante alcuni osservatori interpretino queste operazioni come un tentativo di indebolire le strutture militari della Repubblica Islamica o persino di favorire un cambio di regime, resta un’unica certezza: chi paga il prezzo più alto sono sempre i civili. Uomini, donne, bambini, esclusi dalla pianificazione della guerra come dalla progettazione della pace.
Nel frattempo, il popolo iraniano si trova a fronteggiare non solo una minaccia esterna, ma anche una profonda crisi interna. A seguito degli attacchi israeliani, il governo degli ayatollah, nel nome dell’emergenza, stringe ancora di più il pugno. Il paese ha visto un’escalation di repressione: arresti notturni di attivisti, incursioni nelle case dei dissidenti e gravi limitazioni all’accesso a internet in varie province. Il governo sfrutta lo stato di guerra per legittimare la violenza istituzionale, restringere lo spazio pubblico e controllare il discorso politico. In Kurdistan e nel Sistan-Baluchistan, regioni già martoriate dalle rivolte degli ultimi anni, la stretta è stata particolarmente feroce. Sono le stesse regioni che durante le recenti rivolte hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane.
Non è una novità. La Repubblica Islamica ha affinato nel tempo una strategia che potremmo definire “ingegneria del conflitto etnico” o “dividi e impera” con lo scopo di indebolire i movimenti di protesta. Fomentando la paura del federalismo e creando un’artificiale contrapposizione tra centro e periferia, le istituzioni statali sono riuscite a marginalizzare le rivendicazioni di giustizia sociale delle nazionalità oppresse; kurdi, baluci, arabi, turkmeni.
La realtà sul terreno dimostra che le comunità storicamente discriminate, nonostante la repressione persistente, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo centrale nella resistenza civile contro l’autoritarismo. Lo fanno chiedendo uguaglianza giuridica, partecipazione politica, giustizia sociale. Lo fanno nonostante tutto, pagando un prezzo altissimo. Perché ogni richiesta, ogni voce libera, viene letta come un attacco, come una richiesta di separatismo. Ogni resistenza come tradimento.
Ma la crisi che oggi attraversa l’Iran va ben oltre i suoi confini. La crisi attuale evidenzia come la mancanza di democrazia e di responsabilità istituzionale abbia trasformato il Paese in un campo di battaglia per le potenze esterne. Inoltre, i programmi nucleari, gli investimenti militari e l’opacità delle strutture decisionali hanno non solo logorato le risorse nazionali, ma anche creato terreno fertile per le ingerenze straniere.
Il popolo iraniano oggi sopporta due violenze: quella interna, dello Stato che reprime, censura, tortura; e quella esterna, delle potenze che si contendono l’influenza su un Paese mai pacificato. A queste si aggiunge una terza violenza, più sottile ma non meno devastante: quella dell’abbandono internazionale. Per la gran parte della popolazione, quello che conta è che la guida suprema Ali Khamenei lasci finalmente il potere. Ma non per questo è disposta ad accettare le ingerenze straniere, di Israele e di chiunque altro. A rendere ancora più incerto l’orizzonte c’è l’assenza di una alternativa politica forte e riconosciuta e di un progetto concreto per il dopo-Repubblica Islamica, un vuoto che, come le proteste brutalmente soffocate degli ultimi anni hanno mostrato, alimenta una profonda inquietudine collettiva sul destino del Paese.
In questo contesto, è responsabilità della comunità internazionale, in particolare dell’Unione europea e degli stati difensori dei diritti umani, andare oltre un ruolo meramente osservativo.
L’Europa e l’Italia devono offrire una narrazione indipendente sulla realtà iraniana: una narrazione che non sia subordinata agli interessi geopolitici ma che sia coerente con i diritti umani e la giustizia sociale. Esercitare una pressione diplomatica efficace sulla Repubblica Islamica per fermare la repressione interna, sostenere apertamente i media e gli attivisti indipendenti, facilitare vie sicure per l’asilo politico degli attivisti in pericolo e supportare i movimenti democratici non violenti: sono queste le azioni concrete che possono dimostrare che l’Europa è davvero dalla parte dei diritti umani.
(*) Maysoon Majidi è una regista, attrice e attivista nata nel Kurdistan iraniano, impegnata in difesa dei diritti delle donne e delle minoranze. Fuggita dall’Iran nel 2019, è approdata a Crotone nel 2023. Accusata di essere una scafista, ha trascorso dieci mesi in carcere. Nel febbraio del 2024 il Tribunale di Crotone l’ha assolta con formula piena, per non aver commesso il fatto.