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dal Corriere della Sera

Luisa Muraro, ottantaquattro anni, e Jennifer Guerra, trenta. Da “vittoria” a “legami”, com’è cambiato il modo di nominare e difendere i diritti. Anche da un nuovo nemico: l’“io”

Sulla porta dello stabile di via Dogana 2, a Milano, c’era in origine un cartello: «Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista». Ora quel cartello non c’è più e nel frattempo la Libreria delle donne di Milano, che quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività, ha anche cambiato sede, trasferendosi in via Calvi, non lontano da piazza Cinque Giornate. Oggi questo luogo è la casa del femminismo della differenza italiano, il “salotto più comodo del femminismo più scomodo”, sulle cui poltrone si sono sedute alcune delle più importanti pensatrici e femministe dell’Italia e del mondo intero.

La sua fama è inevitabilmente legata alla filosofa Luisa Muraro, ottantacinque anni il prossimo 14 giugno, che insieme ad altre figure come Lia Cigarini, Elena Medi e Giordana Masotto fondò la libreria nel 1975, un luogo per «mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili», come si legge in uno dei primi Sottosopra, la storica pubblicazione della Libreria. La Libreria non è mai stata solo luogo di letture, ma anzi e soprattutto luogo di invenzione, anche in polemica col femminismo di allora, impegnato nella lotta per la partecipazione democratica. Centrale fu l’incontro di alcune con la femminista francese Antoinette Fouque e col suo gruppo Psy et Po [Psychanalise et Politique], che ispirò le milanesi non solo ad aprire un’analoga Librairie des Femmes, ma anche a esplorare pratiche e teorie ancora inedite nel movimento, come l’idea che le donne non sono tutte uguali.

Ed è proprio intorno al binomio uguaglianza-differenza che si svolgono cinquant’anni di attività della Libreria, a partire dal famoso Sottosopra verde intitolato Più donne che uomini del 1983, che rappresentò una svolta cruciale e, per molte, anche la chiusura di un capitolo del movimento femminista italiano. Lì le donne della Libreria affermavano “la voglia di vincere”, dopo anni passati a pensarsi come una minoranza. «Non è qualcosa che dicevamo così per dire», racconta Luisa Muraro. «La voglia di vincere c’era, ed era efficace. La riconosco come una parola che ci caratterizzava e ci ha spinte ad agire. Voleva dire non riconoscersi nel “di meno” dell’esperienza femminile, ma nel “di più”». È qualcosa che oggi noi giovani femministe facciamo fatica ad associare al femminismo, non solo perché ci sembra di essere ben lontane da una vittoria, ma anche perché spesso siamo portate a concentrarci più sui nostri problemi contingenti che sulla dimensione costruttiva del nostro essere donne.

Questo è un altro punto di distanza col femminismo attuale: non è raro sentire in Libreria che «il patriarcato è finito». La prima volta che ho sentito questa frase sono balzata dalla sedia. “Patriarcato” è una parola che anima i nostri dibattiti e le nostre analisi, e la parola che Elena Cecchettin ha scelto per spiegare le vere ragioni del femminicidio della sorella Giulia. Ma allora perché, chiedo a Muraro, se il patriarcato è finito io continuo a viverlo sulla mia pelle? La filosofa mi invita a cambiare prospettiva: «Per noi il patriarcato non si manifesta più, nel senso che non ha più forza, non ha più mordente. La nostra stessa esistenza è la prova che il patriarcato è finito». Quindi per voi il patriarcato è più un sistema simbolico che materiale?, le chiedo ancora. E se è finito, perché gli uomini uccidono ancora le donne? «Perché non hanno più voglia di combatterle, quindi rimane soltanto l’odio per la loro baldanza, per la loro libertà. E questo odio è così forte che uccidono anche le donne che non vi si oppongono».

All’ordine simbolico patriarcale Muraro e le altre hanno contrapposto un ordine differente, che è quello della madre. Ecco un altro tema che ci distanzia. “Materno” è una parola che a noi giovani fa un po’ paura, perché ci vediamo – forse sbagliando – un’esaltazione della maternità e la creazione di una gerarchia tra donne, prima le madri poi le non madri, faccio notare alla filosofa. «C’è la maternità come fatto e la maternità come dispositivo simbolico, sono due cose diverse. Io stessa sono una madre che non si identifica con la figura della madre. La dimensione della maternità non è mai assoluta, e questo fa sì che si possa anche non essere madri per partecipare a questo ordine, che mette al mondo la forza femminile».

La riscoperta del legame con la madre, secondo Muraro, ha reso il gruppo della Libreria una minoranza nel panorama femminista, che con l’autocoscienza aveva tagliato i ponti col ruolo materno, oltre che con le madri vere e proprie. «La riscoperta dell’affetto per la madre porta con sé anche una sorpresa: il riconoscimento di un legame altrettanto profondo con le altre donne, che diventano amiche, compagne di percorso», spiega Muraro. «Prima avvertivo questa potenza, ma è solo quando ho iniziato a lavorare con le donne che l’ho capita fino in fondo». Questa relazione non solo consente alle donne di trovare una collocazione, ma consente di trovare «parole proprie che hanno un peso nel mondo».

Oggi quando si parla di linguaggio in ambito femminista si pensa quasi sempre a questioni formali, dai nomi professionali declinati al femminile al dibattito sulla schwa. Ma per la Libreria si tratta di un altro piano: «Riconoscersi, prendere la parola e farla contare». Un processo in cui un pronome spicca su tutti gli altri: io. Non l’io dell’individualismo in cui spesso scivola il femminismo egemonico di oggi, in cui a contare è il successo della singola donna, ma un io collettivo che si rafforza nella relazione con le altre. Che nella Libreria delle donne di Milano va avanti da cinquant’anni.