“Una legge fascista. Così criminalizzano dissenso e povertà”. Intervista a Tamar Pitch
Marika Iconomu
5 Giugno 2025
da Domani
Il decreto sicurezza è legge, «una legge fascista». La definisce così Tamar Pitch, professoressa di Filosofia del diritto all’università di Perugia, studiosa della questione criminale e del rapporto tra genere e diritto, e autrice de Il malinteso della vittima. «Da molti anni la politica agisce con pacchetti, leggi, decreti. Ora però si è oltrepassato il limite, perché questo è un provvedimento molto pericoloso», dice Pitch, «un salto di qualità».
Cosa si intende per sicurezza?
Oggi, per sicurezza si intende la messa al riparo dei e delle cittadine dal rischio di incorrere in reati da criminalità di strada. La retorica presenta la sicurezza come un diritto individuale: ciò che prima veniva chiamato ordine pubblico, così rinominato, si presta a rendere incontestabili le politiche che dovrebbero tutelarlo, giacché è difficile contestare un diritto. Poi si è andati oltre e si è iniziato a dire che ciò che conta non è tanto la sicurezza in sé, ma la sua percezione. Lo ha fatto Marco Minniti (ex ministro dell’Interno, ndr), ammettendo in un certo senso che, dunque, l’Italia è un paese “sicuro”, come del resto ben mostrano le statistiche sui reati. Come si produce la “percezione” di sicurezza? Sterilizzando il territorio pubblico, mandando via i cosiddetti indesiderabili, quelli che danno fastidio, o fanno paura. A chi? Se guardiamo bene le politiche di sicurezza, vediamo che esse sono indirizzate perlopiù a rassicurare un particolare tipo di soggetto: uomo, bianco, non ricco ma nemmeno troppo povero, certo non giovanissimo, visto che molte di queste politiche penalizzano i più giovani. Le figure della paura sono sempre le stesse: i “diversi”, i mendicanti, i migranti troppo visibili, i e le sex worker, quelli che lavano le macchine ai semafori o frugano nei cassonetti.
Perché fenomeni sociali complessi vengono governati unicamente con lo strumento del Codice penale?
È un modo per acquisire consenso, si chiama populismo penale. Non è solo il governo italiano a servirsene, è una tendenza generalizzata in occidente dalla fine degli anni Ottanta a ora: le politiche neoliberali smantellano il welfare in nome della libertà individuale e all’insicurezza sociale che ne deriva rispondono con più reati, maggiori pene, detenzione amministrativa, Daspo, eccetera. C’è chi ha parlato di un passaggio dal sociale al penale: questo è quello che è successo negli ultimi quarant’anni. Ma con questo decreto-legge si è andati oltre, come dicono molti magistrati/e, studiosi/e, avvocati/e. Questa è una legge fascista.
Il dl colpisce alcune soggettività per chi sono, non per quello che fanno.
Vengono criminalizzati dissenso e povertà, e chi non è come “noi”. Sono i capri espiatori. Di fronte a un ceto medio impoverito e infragilito, sembrano le risposte da dare.
La deriva securitaria trasforma tutte e tutti in vittime potenziali. Perché parla del malinteso della vittima?
Nel mio libro parlo dell’emergere della vittima come soggetto politico e come status ambito. Solo proclamandosi vittime di qualcuno o qualcosa si riesce oggi a essere riconosciuti come interlocutori politici. Si fa un uso e un abuso di questo statuto, di cui si servono poi anche le politiche di sicurezza. Chi sono le vittime? Tutti i bravi cittadini, potenziali vittime dei cattivi. Così si divide la popolazione e le persone “per bene” sono sempre a rischio di vittimizzazione da parte dei “per male”.
Nota lo stesso approccio nel contrasto alla violenza di genere?
Le politiche di sicurezza in generale, e quest’ultima legge non è certo diversa, sono politiche dirette perlopiù, come dicevo, alla sterilizzazione del territorio pubblico, con divieti, Daspo, recinzioni, di fatto esclusione dei poveri e marginali dalle parti “pregiate” della città. Le donne subiscono una vittimizzazione doppia: per un verso, fin da piccole sono scoraggiate a circolare liberamente dove vogliono, per altro verso, come sappiamo, vengano minacciate, molestate, uccise dentro le sicure mura di casa, a scuola, al lavoro da partner ed ex, datori di lavoro, insegnanti e così via, piuttosto che da sconosciuti scuri di pelle in qualche angolo buio della città. Dicevamo un tempo, e lo diciamo anche oggi, che le città sicure le fanno le donne che le attraversano e le vivono. Non è con il nuovo reato di femminicidio, non è con l’ergastolo senza se e senza ma (o, come diceva Berlusconi, con un poliziotto accanto ad ogni bella, sic, donna), che si contrasta la violenza di genere ma con politiche che diano alle donne (ma direi a tutti/e) maggiori risorse economiche, sociali, culturali. In una ricerca del 2001, svolta con Carmine Ventimiglia, proprio questo emergeva: le donne che vivevano la città più liberamente erano quelle cui queste risorse mancavano meno. In conclusione, più sicurezza sociale, meno paura, più libertà. Per tutti e tutte.