Monica Giorgi, storie di tennis e di anarchia. Per fortuna “Domani si va al mare”
Raffaella Silipo
20 Maggio 2025
da La Stampa
«Non avrei mai potuto scrivere una vera autobiografia, non mi piace l’autocelebrazione. E poi è più facile viverla, la vita, che raccontarla». Piccolina, capelli corti, occhi mobilissimi e battuta pronta, Monica Giorgi pare sul punto di scattare a rete come quando giocava in doppio con Adriano Panatta («voleva fare smash solo lui») o sfidava l’amica Lea Pericoli ai Campionati Italiani. Non è quindi un’autobiografia Domani si va al mare (Fandango), scritto con Serena Marchi e presentato al Salone in questi giorni di gioie e dolori per il tennis italiano, insieme all’editore e appassionato di gesti bianchi Domenico Procacci. Piuttosto è una partita a tennis con la vita, con il primo set in cui la livornese Giorgi, classe ’46, mette alla prova il fisico minuto con allenamenti sempre più intensi e inizia una carriera brillante, da Wimbledon al Roland Garros, spinta «dalla voglia di bello. Ho imparato con l’esperienza che ciò che è bello è vero. E il tennis è bello: l’eleganza del gesto, la leggerezza, il divertimento, il gioco. Non tanto la competizione. Perché si vince, è vero, ma si perde anche tanto». Che di vincere non le sia mai importato troppo lo provano i Campionati italiani 1971, Firenze, quando sul match point contro l’amica Lea Pericoli – una che la chiama «Monicaccia» e «mi ha sempre considerata per quella che sono» – alza le mani, si interrompe, la lascia vincere. Game over. L’amicizia è più importante, forse per questo Giorgi è così brava in doppio.
Il secondo set della vita di «Monicaccia» è più oscuro, pare scritto dal suo autore favorito Franz Kafka: già, perché oltre al tennis, Giorgi ama letteratura e filosofia e all’università si avvicina ai movimenti femministi, pacifisti e anarchici, Gandhi e Martin Luther King. Sono gli Anni 70 «difficile spiegare quell’atmosfera a chi non c’era» e infatti la coautrice Serena Marchi, classe 1981, per districarsi nelle memorie della tennista ha dovuto fare «un viaggio negli anni di piombo, tra lettere ingiallite e articoli di giornale, respirare quell’atmosfera, capire la rabbia e la sofferenza di una generazione». Giorgi insieme agli anarchici livornesi comincia una campagna per i diritti dei carcerati con la fondazione Niente più sbarre. Nel 1972 è la capitana della nazionale italiana alla Federations Cup di Johannesburg e per protesta contro l’apartheid mette una maglietta con la scritta «No al razzismo» e «due piedi bianchi avvinghiati a due piedi neri, belli come il sole, in un evidente rapporto sessuale». Uno scandalo, la Federazione la squalifica. «Proprio quella maglietta – spiega Procacci – mi ha dato l’idea del libro. Stavo girando Una squadra e raccontavo di quando Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, alla finale di Coppa Davis del 1976 in Cile, indossarono la maglietta rossa per protesta contro la dittatura di Pinochet. Giorgi, naturalmente, quella finale l’avrebbe voluta boicottare. E la sua, di maglietta, l’ha pagata ben più cara».
D’altronde «mi sono sempre esposta, in prima persona, mai nascosta – dice lei. – Ci metto il nome, la faccia, l’anima, per le cause in cui credo. Nell’impegno sociale e nel tennis». Anche quando accade l’impensabile: un pentito («un agente provocatore» precisa) la chiama in causa e Giorgi finisce in carcere, da innocente, per reati di banda armata e tentato sequestro. Resterà detenuta per due anni: un periodo buio, in cui deve far appello a tutta la forza mentale allenata sui campi da tennis per non cedere. «Ho bisogno che il mio fisico batta un colpo, che la fatica mi faccia sentire di nuovo viva». Quando infine viene scarcerata sbotta nel liberatorio «Domani si va al mare» che dà il titolo al libro. «Il mare simboleggia tante cose – dice oggi, lo sguardo lontano – le mie radici, la libertà».
Verranno altre avventure, altri incontri: il matrimonio in Svizzera, dove vive tuttora, per prendere la cittadinanza e allontanarsi dalla giustizia italiana – «Non ho più molta fiducia nei tribunali…» – il lungo viaggio in Sri Lanka dove incontra Podi, «mio figlio», un bambino tamil che la conquista con cinque semplici parole: «Bring me in your country». La spina dorsale di «Monicaccia» resta d’acciaio, lo spirito arguto, il gusto della provocazione vivo, ma il sorriso è dolce. Il terzo set della vita lo sta vincendo a modo suo: servizio, discesa a rete, velocità.