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da il manifesto

Una visita alla retrospettiva «Euforia» al museo Madre dedicata all’artista e performer e un incontro nella sua casa-studio di Roma

Da bambina, Bianca Pucciarelli Menna (in arte Tomaso Binga, con quel nome marinettiano a cui era caduta scherzosamente la «m» della famosa costola d’Adamo e il cognome che faceva proprie le storpiature dei bambini) giocava felice a campana, inerpicandosi sulla via della sua abitazione, fra un ospizio per orfanelle e un convento di preti, dove non passavano macchine perché la strada finiva lì.

Dietro, c’era una valle con un piccolo ruscello: d’estate, era il luogo perfetto per re-inventarsi nel ruolo di narratrice di fiabe gotiche, imbastendo storie su castelli misteriosamente arroccati, dimore forse di streghe. Ma, soprattutto, una volta a casa, la piccola Bianca si abbandonava alla malìa dell’alfabeto. «Mio padre con la sua mano sulla mia, mi guidava nella scrittura delle lettere e nelle linee dei disegni. Anche lui era un artista, in Venezuela realizzava vetrate liberty. Si trovò poi in Italia quando si chiusero le frontiere: non poté più ripartire, sposò mia madre e si impiegò, per sopravvivere, in municipio a Salerno. Qui rimase».

È nata così la passione di Tomaso Binga per la «parola vivente», quel linguaggio visivo, sonoro, profondamente fisico, a volte onomatopeico, che interrompeva ogni significato a favore della potenza dell’immagine, del corpo che si fa lettera, sillaba e mima gioiosamente fratture di senso.

Classe 1931, l’artista e performer vive a Roma, in una luminosa abitazione a Vigna Clara, che ha trasformato in un atelier della quotidiana creatività fra carte dove appuntare il germoglio delle idee, dipinti della collezione alle pareti, tavoli sparsi e arruffati.

È accaduto, infatti, che la nostalgia per Salerno e di una gioventù divisa tra il lavoro a scuola nei paesi circostanti, le passeggiate al centro, il mare luccicante all’orizzonte, piano piano evaporasse a favore dell’incantesimo capitolino, dove un giorno Tomaso Binga, scendendo da un autobus che la conduceva in città, reincontrò quel ragazzo salernitano che vedeva sempre salire le scale del suo palazzo, per dare lezione private ai piani superiori, dove lo aspettavano alunni di famiglie disagiate. Quel giovane era Filiberto Menna, presto diventerà suo marito e insieme partiranno per una lunga e preziosa avventura artistica – lui nella storia e critica della disciplina, dopo aver abbandonato un background medico, lei nell’azione che interpretava lo slogan «il personale è politico», irrorandolo con una buona dose di ironia e dissacrazione.

Roma era una città difficile, dispersiva, bisognava lottare per tutto, racconta Binga, dove però ci si divertiva allestendo performances collettive e dove si potevano liberare le energie nuove in quel Lavatoio contumaciale divenuto centro propulsore di serate poetiche, mostre e palcoscenico di compagnie teatrali emergenti come La Gaia Scienza. «Era il posto in cui si bollivano i panni delle persone infette. Ho voluto lasciare quel nome perché anziché i panni, lì lavavamo le idee infette, i pregiudizi, che sono sempre tanti. Era un modo per fare pulizia».

Finalmente, a Tomaso Binga e alla sua attività prismatica di artista, la primavera tributa un articolato omaggio con l’antologica inauguratasi a Napoli presso la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre, a cura di Eva Fabbris con Daria Kahn. Una mostra, visitabile fino al 21 luglio, che è pensata come fosse un’affabulazione ludica e un parco a tema; un’unica installazione immersiva, sala dopo sala, resa possibile dall’allestimento spettacolare dello studio di design Rio Grande: «un dispositivo circolare che evoca uno schema classico della poesia, fin dai tempi remoti degli aedi: la ring composition, dove l’inizio coincide con la fine e viceversa».

Fra tubolari rosa shockinge curve improvvise che accolgono le opere, sculture di polistirolo («mi interessava quel materiale di scarto dalle forme vuote, era uno stimolo, una provocazione sensoriale e mentale») che raccontano un immaginario anni Settanta, scritture che si arrampicano al pari delle donne che devono scalare i muri della reclusione domestica, alfabeti «animati» dal corpo nudo dell’artista, sposalizi sdoppiati da mascheramenti di identità, scorrono quarant’anni di allegre «perdite semantiche», sostituite da corrispondenze di pura invenzione. Ecco allora le lallazioni, le poesie visive, le filastrocche sulla materia-carta che diventa cartuccia e quindi sparo, le installazioni, i collage, le fotografie prese in prestito dai rotocalchi, i ritmi di linee incomprensibili che sfumano in calligrafie archeologiche (le «scritture desemantizzate»).

Euforia è il titolo della mostra partenopea: è una delle rare parole panvocaliche esistenti e Tomaso Binga, ogni volta che le ha trovate (sono in realtà pochissime) le ha salvate sul suo taccuino. Le innumerevoli scritture viventi, alfabeti in cui le lettere si susseguono impersonate con gli esercizi ginnici del corpo, nacquero sempre sull’onda del divertimento e della trasgressione culturale, in barba al principio del maschile imperante. Non c’è nessuna volontà di proporre nuovi cifrari per la «chiarezza del testo», anzi.

Binga è favorevole «all’inversione a U della scrittura». La scintilla, per lei, si era accesa di fronte alle opere dell’amica argentina Verita Monselles, «stava facendo proprio un lavoro sul corpo e realizzava cose incredibili». C’è lei, Monselles, dietro tutte le fotografie che ritraggono la fisicità linguistica di Tomaso Binga, l’alfabeto «al femminile», matrice e madre di una comunicazione libera. Femminile come la domenica, che l’artista opzionò nel 1977 come giorno della settimana per intessere una corrispondenza immaginaria con un’«altra da sé» in 52 epistole (cui in mostra è dedicata una delle sale più belle). «Mia cara amica ti scrivo alle ore sei, mi piace la linea verticale delle lancette».

Quella di Tomaso Binga è stata una militanza femminista fondata anche sull’errore rodariano che rivela e strappa la consuetudine: i suoi Dattilocodici scaturivano da inciampi di battitura che sovrapponevano due lettere, creando immagini al posto di senso. Quando nel 1978 Mirella Bentivoglio propose a Venezia, come evento collaterale della Biennale, la mostra Materializzazione del linguaggio, Binga era tra le artiste prorompenti di quella rivoluzionaria apparizione. Non si sentì in un ghetto dorato, fu un momento di studio e incontro, si aprì un orizzonte. Non cambiò la scena culturale per le artiste-donne ma «fu una mossa importante». Almeno, non si poteva più tornare indietro.