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da il manifesto

Le fotografie di Fatma Hassouna esposte in diversi luoghi di Cannes – fra cui il Padiglione della Palestina – ci raccontano Gaza le sue macerie, il suo dolore, quel genocidio quotidiano rispetto al quale finalmente, e anche grazie a lei, sembra che stia nascendo una diversa consapevolezza, o almeno ci sia una presa di parola. La narrazione cambia? Speriamo. Sulla Croisette il film di cui la giovane fotografa e giornalista palestinese uccisa a Gaza insieme a tutta la sua famiglia dalle bombe israeliane è protagonista è stato il punto di partenza per una reazione. Non sul Red carpet militarizzato ma nelle parole della serata di apertura dette dalla presidente di giuria Juliette Binoche, con la tribuna firmata da tantissime artiste e artisti e pubblicata il giorno di apertura del Festival perché il genocidio si fermi, nella decisione di altri festival che si sono impegnati a far circolare questo film (Venezia, Locarno, Nyon) per rompere il silenzio, nell’emozione del pubblico che ha affollato le proiezioni (molto controllate dal punto di vista della sicurezza) sempre sold out.

Put Your Soul on Your Hand and Walk – nella selezione di Acid – inizia dalla necessità dell’autrice, la regista iraniana ma esiliata a Parigi Sepideh Farsi di documentare la guerra a Gaza, un gesto contro il silenzio e contro quella disumanizzazione dei palestinesi nel racconto di vittime senza nomi e senza storie. Il 16 aprile, quando Fatem come la chiamavano gli amici è morta – ce lo ricordano i due cartelli all’inizio – è divenuto un’altra cosa, un archivio della sua resistenza che si amplifica e fa risuonare ancora più forte la sua battaglia, quell’essere lì e continuare a testimoniare la brutalità dell’esercito israeliano – che infatti uccide i giornalisti perché il mondo non veda.

Nelle conversazioni a distanza su zoom fra lei e Sepideh Farsi si afferma dunque una parola che è anch’essa negata, e l’immagine nel film di Fatem viva, persistente, ci parla di ciò che i nostri governi continuano a ignorare e che oggi non può più esserlo perché questa complicità sbriciola ogni senso della democrazia. Fatem è lì nella sua urgenza, e con lei ci sono gli abitanti di Gaza anche se fuori dallo schermo, la loro esperienza quotidiana di fatica, paura, tristezza, fame, rabbia, dolore. Sepideh Farsi aveva avuto il contatto di Fatma Hassouna quando era al Cairo, da dove aveva provato inutilmente a entrare a Rafah. Le due donne portano avanti questa conversazione per mesi, la ragazza appena iniziata l’aggressione israeliana, dopo i massacri del 7 ottobre, inizia a raccogliere immagini, documenta, cerca di mantenere una memoria dei luoghi, dei suoi abitanti, di quel quartiere dove vive e degli altri che giorno dopo giorno vengono distrutti, delle persone sono costrette a fuggire, che muoiono inghiottite dalla polvere come già diversi fra i suoi famigliari: adulti, bambini, anziani, una popolazione.

Sullo schermoai loro volti si sovrappongono alcune immagini di Fatem, ma sono soprattutto le sue parole, poesie, racconti precisi, stati d’animo che danno il senso dei sentimenti e della realtà. Fatma che vorrebbe viaggiare ma come dice non lascerà mai la Palestina e tantomeno ora, con un genocidio in atto, il suo compito è rimanere in quella terra, resistere, come hanno fatto da sempre, da quando un altro paese si è arrogato il diritto di distruggerli. I giorni passano, le immagini si sovrappongono, gli schermi si moltiplicano; la linea a volte cade, le connessioni sono difficili, Israele cerca con ogni mezzo di isolare Gaza dal mondo.

L’assedioè sempre più duro, le parole di Fatma ne sfidano la ferocia con la loro gioia, altre volte invece appare distratta, la fame aumenta, gli aiuti sono bloccati. Il telefono riprende a volte la regista rifilma con una piccola camera. Fatma si alza e apre al suo gatto, ascolta qualcuno nella stanza accanto: cosa dire? Come continuare? La stanchezza si fa più forte, come la violenza, la morte. Eppure lei continua a tenere aperta questa finestra – attraverso la quale far uscire l’orrore che accade, è una crepa, e un documento che ci parla e ci interroga, a volte nello sconforto, più spesso col sorriso. «È difficile, molto» ripete allargando l’immagine in quella stanza, da cui sul suo volto appare l’esterno i gesti, il tono della voce anche quando cerca di mascherare rivelano ciò che è fuoricampo, che le sue fotografie hanno fermato oltre il tempo. Lo portano dentro con forza, lo fanno tangibile. Lei ora non c’è più ma c’è la sua immagine, la stessa di migliaia e migliaia di palestinesi uccisi, questa è anche la loro storia, e ci dice che tacere non è più permesso.