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da Altraeconomia

Mentre continua a bombardare la Striscia di Gaza e a intensificare l’occupazione in Cisgiordania, l’esercito di Tel Aviv affronta una crisi profonda. Oltre al crescente numero di soldati che rifiutano di servire, aumentano i casi di suicidio tra le truppe e l’azione di censura dell’esercito nei confronti della stampa. “È il sintomo di un abisso morale”, spiega Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972

Dopo oltre 18 mesi di guerra contro la popolazione palestinese -i cui metodi, per le Nazioni Unite, sono coerenti con il genocidio-, il legame tra cittadini israeliani e Stato appare sempre più fragile. Oltre alle continue manifestazioni di piazza contro il governo accusato di voler proseguire la guerra per salvare sé stesso anziché liberare gli ostaggi a Gaza, è la crisi delle Forze di difesa israeliane (Idf) a manifestarsi in modo evidente.

Decine di migliaia di riservisti rifiutano di arruolarsi, aumentano le proteste pubbliche di militari contro la guerra, e il numero di suicidi tra i soldati è in crescita rispetto al passato. Tutto questo avviene in un contesto in cui la sfiducia della popolazione verso l’istituzione militare, storicamente pilastro della coesione nazionale, si manifesta sempre più pubblicamente, e la stessa risponde inasprendo la sua azione di censura verso la stampa.

“Il governo non pubblicherà mai i numeri reali. Ma chiunque, di recente, abbia partecipato a proteste antigovernative o segua i social media in lingua ebraica nota che rifiutarsi di prestare servizio militare sta diventando legittimo, e non solo in ambienti di sinistra radicale”.

Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972 Magazine, ha provato di recente a ricostruire l’entità del fenomeno (con due articoli, in ebraico e in inglese). “Il problema è complesso e in continua evoluzione”, spiega Rapoport ad Altreconomia, che per la sua inchiesta si è basato su fonti interne ad esercito, governo e organizzazioni di refuseniks (obiettori di coscienza).

In un Paese in cui la coscrizione è obbligatoria per tutti i cittadini maggiorenni, i soldati devono prestare servizio da riservisti fino a 40 anni. In tempo di guerra, l’esercito dipende fortemente da questa categoria di soldati, e infatti in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il tasso di partecipazione dei riservisti era al 120%. Ma già a marzo 2024, dopo l’interruzione dell’accordo di cessate il fuoco da parte del governo israeliano, la percentuale è scesa drasticamente all’80%. Secondo alcune fonti, il tasso effettivo sarebbe oggi tra il 50 e il 60%. Triangolando questi dati, Rapoport ha stimato che oltre 100mila riservisti avrebbero rifiutato la chiamata alle armi nell’ultimo anno. “È importante guardare anche alle nuove reclute, non solo tra gli obiettori di coscienza’”, prosegue Meron. Questi ultimi, dal 7 ottobre 2023 in poi, sarebbero circa 1.500, e per quanto abbiano maggiore impatto mediatico, i casi di persone che hanno detto “No” alle armi per convinta opposizione alla guerra, all’occupazione e al massacro dei palestinesi, rimangono pochi. Più preoccupazione sembrano suscitare i cosiddetti “rifiuti grigi”: soldati che evitano il servizio più per frustrazione, disagio o stanchezza, con alcuni che simulano disturbi mentali per essere esonerati. Questo tipo di rifiuto, secondo Rapoport, è più difficile da tracciare ma altamente significativo, perché riflette un malessere diffuso.

La crisi delle Idf non si ferma all’atto individuale. Il 10 aprile, circa mille riservisti dell’Aeronautica militare hanno pubblicato una lettera chiedendo al governo la fine della guerra a Gaza e un accordo per liberare gli ostaggi. All’appello hanno risposto presto centinaia di riservisti della Marina e della squadra d’élite dell’intelligence, l’Unità 8.200. Il 19 aprile invece, è la volta di circa 1.500 membri della fanteria e carri armati che hanno acquistato due pagine del quotidiano Haaretz per avanzare al governo le stesse richieste.

“Nelle ultime settimane sono uscite decine di lettere simili, si stima che oltre 10mila soldati abbiano firmato”, continua Rapoport, ricordando come mai nell’ultimo anno sono apparsi articoli che esprimono aspre critiche nei confronti delle Idf, anche da parte di ex-generali e ufficiali. Critiche che avrebbero potuto essere di più se non fossero state oggetto dell’intervento delle stesse Idf che, per il potere conferitogli dalla legge, avrebbe censurato il doppio degli articoli su temi relativi alla “sicurezza” nell’ultimo anno, secondo l’ultima inchiesta di Local Call e +972 Magazine. Per Rapoport, data la scala senza precedenti della guerra in corso, questi atti di censura non preoccupano quanto invece l’autocensura e il silenzio di tanti suoi colleghi. “La paura di ritorsioni è ciò che sta influenzando di più la libertà di stampa”.

Tra le manifestazioni più tragiche della crisi c’è l’aumento dei suicidi tra i soldati. A dare la notizia sono state le stesse Idf lo scorso gennaio, secondo le quali sono 28 i militari che si sono tolti la vita dal 7 ottobre 2023. Se si considerano altri 10 suicidi verificatisi prima dell’attacco di ottobre, il totale del biennio 2023-2024 sale a 38, ovvero il 65% in più rispetto ai 25 registrati nel 2021-2022.

“La verità sui suicidi è difficilissima da decifrare”, spiega ad Altreconomia Guy Davidi, regista israeliano, già co-realizzatore del film “Five Broken Camers”, candidato all’Oscar nel 2013. “L’esercito ha sempre avuto paura di parlare apertamente dei suicidi. Il fatto che a gennaio abbiano pubblicato quei dati è una routine da qualche anno, ma oltre quei numeri c’è poco altro di trasparente”.

Davidi conosce bene questo problema, affatto nuovo in Israele, grazie a una ricerca durata oltre dieci anni per realizzare il suo ultimo documentario, “Innocence”. Presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2022, protagoniste sono le storie di giovani israeliani che si sono tolti la vita durante o dopo il loro periodo militare. Il film, un durissimo j’accuse contro l’esaltazione del bellicismo, ricorre alle memorie private di alcuni soldati morti suicidi. Intervallato da scene quotidiane all’interno di asili, scuole e “campi estivi” militari, il documentario è un lavoro attualissimo, che mostra come la militarizzazione sia da sempre l’ideologia trasversale della società israeliana, a partire dal sistema educativo. Basato su 700 casi a partire dagli anni Ottanta, “Innocence” ha incontrato forti ostacoli alla sua realizzazione.

“Il suicidio di un soldato è la forma più estrema di rifiuto del sistema. Per questo lo Stato, per cui il tema è un tabù, fa di tutto per calare il silenzio. A livello individuale, inoltre, il senso di vergogna e le pressioni sociali sono tali per cui le famiglie delle vittime reagiscono con autocensura”, afferma Davidi. Non è un caso, dunque, che nonostante la risonanza internazionale -a parte in Paesi come Germania, Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dove le lobby israeliane avrebbero fatto pressioni per non farlo circolare-, il film sia stato pressoché ignorato in Israele. Anche perché quando è stato pubblicato, nella primavera del 2023, il tema del rifiuto di servire nell’esercito era un elemento significativo delle proteste di massa contro la riforma giudiziaria del governo.

La prova che il governo utilizzi il silenzio emerge dal modo in cui tratta i diversi casi di rifiuto. Mentre alle obiezioni di coscienza, minoritarie e “radicali”, si risponde con il carcere (come i recenti casi di Ella Keidar Greenberg o Itamar Greenberg, che hanno avuto eco internazionale), ai rifiuti “grigi” viene inflitta una blanda “prova domiciliare” di due settimane, nel tentativo di non creare precedenti “visibili”. Netanyahu in risposta alle lettere dei riservisti ha pubblicato un tweet in ebraico accusando i firmatari di voler “distruggere la società dall’interno”. Segno evidente di una volontà di evitare che la crisi venga discussa fuori dai confini israeliani.

Per Davidi la cosa più importante per il governo è non mettere in discussione l’idea dell’esercito “di popolo”, che tuttavia si sta sgretolando da anni. “L’esercito sta perdendo il suo tradizionale carattere di laicità, per il 40% la sua composizione demografica oggi è data dalle fasce più radicalizzate della popolazione”, come coloni ed estrema destra religiosa, afferenti anche a partiti come Otzma Yehudit, guidati Itamar Ben-Gvir, l’attuale ministro della Sicurezza nazionale e tra i più ferventi promotori della “guerra totale” a Gaza.

Se salta dunque l’idea di “esercito di popolo”, che ha contribuito a plasmare l’identità israeliana, è inevitabile che prima o poi salti il contratto sociale tra lo Stato e i suoi cittadini. “La crisi è ormai sotto gli occhi di tutti – conclude Rapoport -. Il crescente numero di rifiuti, obiezioni e suicidi è il sintomo di un abisso morale. La disumanizzazione dei palestinesi, in un contesto di crisi economica e sociale, rischia di trasformarsi in un boomerang per Netanyahu. Puoi continuare a sganciare bombe, ma come fai a sostenere una guerra senza soldati? E come pensi di occupare la Striscia di Gaza se mancano le risorse umane per farlo?”.