La libertà delle figlie
Elisabetta Cibelli
13 Maggio 2025
Il desiderio di maternità non è mai stato un assunto nella mia vita; è nato in una relazione amorosa inaspettata, piena di grazia. Prima di diventare madre, ho vissuto due interruzioni spontanee di gravidanza. Dopo la seconda, sono caduta in uno stato di intensa sofferenza. Il fatto che quegli aborti non fossero legati ad alcuna patologia, né mia né del mio compagno, invece di rassicurarmi, aggiunse a quel dolore l’inquietudine ulteriore della mancanza di una causa. Fu una ginecologa che mi suggerì allora una pista di riflessione che andasse a indagare, nelle costellazioni familiari, le paure che accompagnavano il mio desiderio di maternità.
La mia vita è stata segnata dalla nascita di Dodò, sorella disabile affetta da una tetraparesi spastica causata da un distacco di placenta. Mia nonna, madre di mia madre aveva dato alla luce una figlia, Donata, mia zia, affetta da una rara malattia neurologica che ha invalidato la sua vita sin dall’infanzia per poi costringerla all’immobilità in età adulta. La genealogia materna pesava come un macigno dentro di me: conoscevo le gioie e le difficoltà di curare una persona non autosufficiente e gli sforzi necessari a costruire un equilibrio familiare dove il centro è sempre un altro/a. Pur riconoscendo l’incommensurabile ricchezza che la presenza di mia sorella ha donato alla mia umanità, avevo paura di ripetere la storia, di essere succube di un destino inesorabile a cui non potevo sottrarmi. Quando questa paura affiorò alla mia coscienza, decisi di parlarne con mia madre. Poiché non vivevo più con lei, la chiamai al telefono e le parlai a lungo. Lei mi ascoltò in silenzio, riconobbe la mia paura, la mia sofferenza e alla fine prese parola. Mia madre, che da sempre possiede il talento delle parole buone, mi disse all’incirca così: Conosco la tua paura, ma la mia storia non è la tua storia e tu sarai una madre diversa dalla madre che sono io. Sebbene tu sia mia figlia, non è detto che tu debba ripetere la storia. Io sono io e tu sei tu. Il ricordo di quel colloquio mi emoziona sempre. La risposta di mia madre sortì l’effetto di una formula magica liberatoria, tanto che dopo circa un mese scoprii di essere incinta della prima delle mie due figlie, Sofia. Mia madre mi aveva liberata dall’ingiunzione di un ineluttabile destino e mi aveva consegnata alla libertà che io stessa andavo cercando; la sua storia sarebbe rimasta con me, non come pesante fatalità, ma come trama da cui attingere forza e consapevolezza, alleata nella ricerca autentica di una mia direzione.
Questo vissuto è stato generativo di molteplici pensieri riguardanti il rapporto tra la genealogia femminile e la libertà soggettiva. Tra questi vi è la convinzione che la genealogia materna e femminile è la condizione da cui si genera la libertà e il senso della propria differenza femminile. Non ve n’è un’altra. Il concetto di una relazione genealogica tra donne è stato foriero di una profonda rivoluzione politica. In questo breve testo, parto dall’intenderlo in un modo duplice, seguendo le declinazioni che ne diede Irigaray: «C’è una genealogia basata sulla procreazione, che ci lega alla madre, a sua madre e così via, la maternità operando come la struttura di un continuum femminile che ci congiunge ai primordi della vita»; essa riabilita la verticalità della relazione madre-figlia. Vi è, inoltre, una genealogia che opera mediante la parola connettendoci alle figure femminili del presente e del passato a cui riconosciamo autorità e da cui attingiamo forza simbolica: «Non dimentichiamo nemmeno che abbiamo già una storia, che certe donne, anche se era culturalmente difficile, hanno segnato la storia, e che troppo spesso noi non ne abbiamo conoscenza», dice Irigaray facendo riferimento all’opera di altre donne. Le due dimensioni genealogiche si intrecciano in modo inaspettato, e operano insieme, non senza difficoltà e conflitti. Le donne hanno cercato nella grandezza femminile esempi a cui agganciare la ricerca della propria indipendenza simbolica e dunque della libertà. Un modo per «essere all’altezza di un universo senza risposte» (come dice Carla Lonzi) e sopravvivere al vuoto necessario a cui bisogna far fronte per nascere come soggetti liberi. In tal senso, la genealogia è l’insieme delle relazioni, tra donne in carne ed ossa e figure femminili di grandezza a cui riconosciamo autorità, necessarie a significare la differenza femminile nel mondo e a sostenere la ricerca soggettiva di sé. È dalla trama genealogica che si genera una libertà soggettiva paradossale, che sovvertendo l’idea di una libertà ab-soluta, svincolata cioè da qualsiasi legame, ne afferma una di segno opposto. Si tratta di una libertà che tiene conto dell’intreccio genealogico senza coincidervi, interrompendo un continuum che permane come sfondo necessario, significativo e mutevole della ricerca soggettiva: questa non coincidenza, il passo obliquo della differenza, diviene una nuova soggettività a cui si agganciano nuove relazioni. Il nostro differire dalla genealogia femminile, rimanendo ad essa radicate, è il processo che consente alla storia di non ripetersi e alla soggettività femminile di trasformarsi nella relazione politica con altre e altri. In questo intreccio la soggettività si genera e ri-genera continuamente. La genealogia femminile si configura, allora, come una eredità priva di determinismo, una costellazione di relazioni femminili che soppiantano un ineluttabile dover essere. Un sostegno autentico alla libertà femminile e all’inesauribile ricerca soggettiva. Essa (come affermava Antonietta Lelario nel suo intervento durante la redazione aperta di Via Dogana) è infinità poiché infinite sono le mediazioni che ogni volta bisogna trovare per sottrarsi alla ripetizione svalutante del reale, a una storia già data che soffoca la libertà (non solo femminile) invece di alimentarla. In questo, la genealogia femminile è ciò che ci conferisce la forza di non soccombere a un destino che non ci appartiene, a una ripetizione che non prevede differenze. Il compito di trovare la propria strada, di nutrire la propria differenza è sempre una scommessa soggettiva e politica insieme. La tua storia non è la mia storia, ha significato per me essere autorizzata a vivere la mia storia, a cercare la libertà, assumendomi la titolarità della differenza che incarnavo. Una differenza che riconosce l’autorità di colei e coloro che ce la riconoscono. Una differenza che a sua volta può autorizzare e sostenere la libertà di altre donne, in modo speciale quella delle figlie.