Quel dialogo affettivo e politico con la storia
Alessandra Pigliaru
6 Maggio 2025
da il manifesto
“Il femminismo della mia vicina”, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina
«Per un bel pezzo io mi sono vergognata di essere una donna». «Io no». Questo l’incipit del primo capitolo di “Il femminismo della mia vicina” da oggi in libreria per Manni editore (pp. 101, euro 14). A cominciare il dialogo è Luciana Castellina, a risponderle è Ginevra Bompiani. Che due personalità di tale levatura abbiano deciso di interrogarsi sul loro rapporto con il femminismo, inteso come vissuto storico e politico, è una buona notizia. Simile a un memoir in relazione (che non si sarebbe potuto realizzare se non in questa modalità del pensare appassionato e insieme) il volume va a illuminare un tratto di strada che ha radici e collocazioni precise, in primis vi è l’amicizia di Castellina e Bompiani iniziata circa sedici anni fa e coltivata con determinazione e scambio anche nelle divergenze. Volendosi bene, come accade e si rinnova tra di loro, i disaccordi sono dichiarati ma con ascolto reciproco: il primo è che Luciana Castellina si è mossa sempre in una dimensione collettiva e Ginevra Bompiani in una individuale. Questa “vicina” presente nel titolo è allora l’orlo affettivo in cui si trovano una e l’altra, nel sapersi stare accanto pure nella diversità. Seguiamo dunque lo schietto scambio di due magnifiche signore che si immaginano frontali a raccontarsi tra scena pubblica e vita privata.
Nella marca conviviale e mai nostalgica adottata da entrambe, apprendiamo numerosi aneddoti e altrettante tappe fondanti ciò che dal movimento delle donne conduce ai primi collettivi e ai primi guadagni della libertà femminile. Ancora prima da lunghe militanze – non femministe ma femminili – anzitutto nel Pci. Se Castellina affonda ancora più a ritroso citando la stessa relazione tra la Resistenza e ciò che ha rappresentato la nascita dell’Udi, Bompiani rammenta la sua adesione, seppur breve, al gruppo di Rivolta femminile. Dalle svolte di ciascuna, la prima all’interno di un partito e la seconda no, si iniziano a delineare i primi momenti – e ne descrivono diversi con discreta e godibile ironia – in cui hanno riconosciuto che essere donna non sarebbe stato esclusivamente un affare biologico o contingente bensì avrebbe comportato un mutamento dello sguardo, della posizione fino a quell’istante assunta. Per esempio, la coscienza di essere donne in un mondo organizzato dai maschi, in opposizione a una famiglia patriarcale (nel caso di Bompiani) o nelle contraddizioni interne al Pci (nel caso di Castellina).
Essere donne nel senso di una differenza sessuale consente a ciascuna di loro di scassinare lo sgabuzzino simbolico in cui per secoli il patriarcato ha creduto di rinchiuderci. Cosa ci sia dentro quel pertugio di sopraffazione, di violenza epistemica e storica, è un passaggio che spiegano con una certa dovizia a partire da loro stesse e da un punto di avvistamento non solo italiano ma internazionale. «Ci sono molti punti in comune tra il colonialismo e il patriarcato», scrive Castellina e mette in gioco l’identità, nominata più di una volta che tuttavia per Bompiani non esiste se non come invenzione o questione burocratica. Ci sono infine i corpi, le storie di tutte e tutti noi e i nodi più recenti che il femminismo ha affrontato, non tutti comprensibili, con alcune asperità insieme alle inquietudini sul futuro e sull’avanzare delle destre, nel frattempo.