Ma anche da ubriache è sempre uno stupro
Fabrizia Giuliani
17 Aprile 2025
da La Stampa
Manca il reato, il fatto non lo configura. La formula con la quale la Corte d’Appello di Bologna assolve con formula piena due imputati dall’accusa di violenza sessuale di gruppo per induzione con abuso delle condizioni della vittima, è sintetizzata così. La giovane che aveva sporto la denuncia al tempo, appena diciottenne, il reato lo aveva visto benissimo. Era andata in pronto soccorso e poi dalle forze dell’ordine, aveva raccontato con puntualità cosa fosse accaduto quella notte a Marina di Ravenna, nella discoteca dove aveva conosciuto i due uomini e dopo quando l’avevano portata a spalla a casa di uno di loro. Non stava bene, aveva bevuto: i due le avevano fatto fare docce «per farla riprendere» e fatto bere caffè. Poi l’abuso, secondo la denuncia, ripreso e documentato in tre video; il rapporto sessuale filmato consenziente, secondo la corte.
Le parole della ragazza portano in carcere i due giovani che presentano istanza di scarcerazione al tribunale del riesame e vengono rimessi in libertà dal Tribunale di Bologna. Il fatto risale al 2017, ma complice la pandemia, l’iter è lungo: gli indagati sono rinviati a giudizio e poi assolti in primo grado dal collegio penale ravvenate nel 2022. Non c’è reato, avevano affermato i giudici, perché sì, la ragazza era ubriaca ma non aveva subito forzature. Il fatto resta, c’è, persino documentato ma non si traduce in crimine.
Il salto da un piano all’altro è impedito dalla presenza del consenso che la sentenza afferma di aver accertato, maturato nel tempo – tre ore – tra le strategie dispiegate per farla rinvenire e il momento del rapporto con video. Verrebbe voglia di fermarsi qui, nel commento. Perché le norme che puniscono la violenza sessuale, almeno da quando viene intesa come reato contro la libertà personale e non contro la pubblica moralità, sottolineano la gravità dell’abuso determinata dalle «condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, a prescindere dalla violenza o minaccia». E dovrebbe essere superfluo ribadire come l’assunzione – volontaria o involontaria – di alcolici diminuisce o annulla la capacità di fornire un valido consenso, come ripete la Convenzione d’Istanbul (art. 36). Sul punto è intervenuta anche la Cassazione che ha ribadito come il sì della persona offesa – chiaro, inequivoco e continuo – costituisca l’elemento discriminante nella definizione del reato e soprattutto, debba essere chiarito tenendo conto della situazione e del contesto. Ora, nel viaggio a braccia dalla discoteca all’appartamento, nelle docce, nei caffè e nei video circolati, si fatica davvero a rintracciare le condizioni per l’espressione di ciò che definiamo consenso. Ma usciamo dalle norme per tornare alla cultura, anzi osserviamo bene l’intreccio di cui sono fatte.
Perché il mutamento che auspichiamo, quello che dovrebbe portare a intendere i no come no e gli abusi come abusi, passa anche per i messaggi che mandano le sentenze. In un bellissimo documentario di Soldini dedicato alla violenza contro le donne Un altro domani, il procuratore Francesco Menditto afferma senza come la denuncia per violenza sessuale per una donna possa rappresentare a volte, l’avvio di un calvario. Perché lei può diventare la vittima, deve dimostrare la sua opposizione nonostante il quadro normativo affermi l’opposto: perché hai bevuto, com’eri vestita, perché l’elastico è rimasto integro, perché hai accettato l’invito, perché hai potuto scrivere a tua madre, perché non hai urlato, morso, picchiato. Ma senza denunce la vergogna non cambia lato, per riprendere il bel monologo di Francesca Mannocchi. Dobbiamo ricordarlo, anche se certe sentenze fanno passare la voglia di farlo.