Bani Koshnoudi, «in Iran le donne non hanno più paura di lottare insieme»
Cristina Piccino
13 Aprile 2025
da il manifesto
La regista parla di «The Vanishing Point», premiato al festival di Nyon Visions du Réel. Una storia famigliare e collettiva, il tabù del silenzio, la rivoluzione da fare
The Vanishing Point, il punto di fuga, o il punto zero, è una figura rimasta intrappolata nel silenzio: si chiama Nasanin, è la cugina della regista, aveva ventisette anni quando nel 1988 il regime di Teheran l’ha arrestata, rinchiusa nel carcere di Evin dove è scomparsa. Di lei non si è saputo più nulla, l’hanno uccisa ma il corpo non è stato restituito. La famiglia però nel terrore è rimasta in silenzio. Non se ne è mai parlato, e poi? A Nasanin però Bani Koshnoudi arriva a poco a poco nel suo nuovo film, The Vanishing Point, che ha vinto il concorso Burning Light del festival svizzero Visions du Réel. Prima ci sono alcuni détours tra le immagini accumulate negli anni, il suo archivio di disubbedienza, alcuni incontri che diventano frammenti di memoria. Le fotografie di una zia, che racconta di quando un’altra donna voleva denunciarla per avere le unghie smaltate durante il Ramadam. Lo ha ricevuto in eredità quell’album, quasi una trasmissione di racconti non scritti. E poi la casa vuota dei nonni, in Iran, dove lei è nata e che ha lasciato coi genitori per l’America quando era piccola, dopo l’arrivo di Khomeini. Ci è tornata, ha filmato l’Onda verde nel 2009, in un film anonimo, The Silent Majority Speaks; appena ci ha messo il nome non ha potuto mai più andarci, dagli Usa si è spostata prima in Messico, ora a Parigi. Anche di quel film vediamo dei frammenti, così come delle lotte di oggi, la stessa violenza brutale del regime, mentre sempre più ragazze e anche ragazzi sono lì a occupare col corpo lo spazio rivendicato della vita.
Poi arriva Nasanin, una mujaheddin, quando dalla Svizzera dove studiava è rientrata l’hanno arrestata subito. E intanto la geografia muta, la montagna che si vede dalla casa dei nonni e che sormonta il carcere diventa minacciosa. The Vanishing Point è un film di resistenza che tesse una storia al femminile, le donne e la loro lotta contro la repressione, quelle madri che oggi gridano forte esibendo sui social le foto dei figli uccisi, combattono per la libertà di tutti da un regime che soffoca in una brutale violenza. Abbiamo parlato con Bani Koshnoudi a Nyon.
“The Vanishing Point” racconta la resistenza delle donne e non solo in Iran oggi, e quella di tua cugina, Nasanin, scomparsa nel carcere di Evin negli anni ’80. La sua storia, come ci dici, è stata sepolta nel silenzio, nessuno in famiglia ne ha parlato. Il film rompe questo tabù ma tu non hai detto della sua realizzazione ai tuoi famigliari, perché?
I miei genitori sapevano che ci stavo lavorando, ne ho discusso con mia madre ma per me non era questo il punto. La mia famiglia e il suo segreto sono una piccola parte di una realtà che in Iran riguarda migliaia di famiglie rimaste in silenzio sui figli o le figlie scomparse, sugli arresti, gli omicidi. È un silenzio che riguarda il Paese intero e il sistema che lo impone nell’ideologia della rivoluzione. Sono cresciuta sentendomi ripetere che ero una ribelle come mia cugina Nasanin di cui non ho alcun ricordo, è morta quando io avevo due anni. Questo preoccupava moltissimo i miei genitori, temevano che potessi fare qualcosa e sparire come lei. La sua figura mi ha attratta da quando ero molto giovane, e l’interesse è cresciuto insieme al mio sentimento di ribellione verso qualsiasi ingiustizia. Quando ho cominciato ad andare in Iran e ho scoperto cosa succedeva lì – anche se molto lo sapevo già prima – ho capito che il silenzio fa parte di un programma sistemico; non si limita a oscurare chi è sparito perché accusato di essere un oppositore politico ma copre molto altro permettendo a questo regime fascista di continuare a esistere. Al tempo stesso, come puoi accusare le persone che vivono in Iran di stare zitte se pensi a ciò che rischiano? La censura riguarda ogni aspetto della vita, come parli, cosa dici in strada, le tue scelte in quanto artista, filmmaker o scrittore, che diciamo fra di noi, di chi possiamo fidarci. Fare un film sul segreto di una famiglia per quanto terribile deve necessariamente uscire dai confini personali – anche se questo è un film molto personale – e rivolgersi a una dimensione collettiva. Quando nel 2009 siamo scesi in strada contro il regime si è cominciato a rompere qualcosa: potevamo fidarci di chi avevamo accanto senza doverci giustificare, dire chi sei, cosa fai a casa, piegarci alle autorità. L’Iran è condizionato da una cultura molto paranoica che rende difficile avere delle relazioni. Le ultime rivolte hanno rotto definitivamente il muro permettendo di andare dall’altra parte. Le giovani generazioni non hanno più paura, lottano insieme, si confrontano fra di loro. È vero che tanti non fanno nulla, e quando sei in una dittatura non agire è come partecipare al sistema e persino collaborare. Ma dobbiamo vivere insieme e incolparsi e punirsi reciprocamente serve a poco, si deve capire in che modo riparare a questo.
Negli ultimi mesi l’Iran è stato al centro di forti attacchi, ci sono stati i bombardamenti di Israele e gli interventi militari in Libano che è un Paese di influenza iraniana. Credi che questo possa condizionare la politica interna?
È una questione ingannevole. Non sono d’accordo con gli iraniani che pensano che questi attacchi possano essere di aiuto per liberarci dal regime. La resistenza c’è sempre stata, sin dagli inizi della Rivoluzione khomeinista, hanno ucciso migliaia di persone pensando così di stroncarla. La loro tattica è sempre la stessa: accusare i movimenti di opposizione di essere pagati da questo o quel paese straniero, che poi sono le strategie di qualsiasi dittatura. Se oggi l’Iran venisse attaccato non sappiamo cosa accadrebbe, sappiamo che sono in uso armi terribili, lo vediamo ogni giorno a Gaza, ma senza fare speculazioni geopolitiche mi viene in mente ciò che si disse all’epoca della guerra con l’Iraq che aveva armi americane in dotazione. Eppure il regime iraniano vinse, avevano migliaia di combattenti anche giovanissimi, e la guerriglia ha spesso ragione sugli eserciti – il Vietnam ce lo ha mostrato. Penso che ci sia un mondo parallelo, quello dei media, delle tv che continuano a mostrare un forte sostegno interno al regime. Ma la resistenza oggi si è estesa, e questa è la sola risposta possibile per una liberazione. Le donne combattono per la libertà e grazie alla rete comunicano attraverso il Paese raggiungendo anche le zone più lontane. È una battaglia intersezionale che cerca di affermare l’idea di una libertà per tutti, e pian piano anche chi non comprende comincia ad appropriarsi di alcuni slogan. Credo che la resistenza continui a crescere, al di là dei bardamenti o meno di Usa o Israele, c’è un linguaggio di resistenza che riguarda una parola, un gesto, chi siamo, come costruire la nostra società. Le persone oggi si difendono reciprocamente, si aiutano l’esatto opposto di ciò che accadeva anni fa quando la gente denunciava gli altri.
Ci sono molti fantasmi nel film, tua nonna, tua zia, e naturalmente Nasanin che diviene il riferimento di una battaglia di cui le donne sono le protagoniste – pure se abbiamo visto tanti ragazzi in strada.
Gli uomini adesso sono totalmente coinvolti, hanno capito che se le donne non sono libere non lo saranno neppure loro. La cultura patriarcale deve cambiare, abbiamo dei modelli rigidi ma il fatto che il padre o il nonno decidano per l’intera famiglia non è più sostenibile. Riguardo al film non ho lavorato su una scrittura, all’inizio avevo alcune immagini riprese negli anni, è vero che le donne della famiglia sono centrali, questa è una storia di donne – anche se ci sono stati uomini importanti. Il padre di Nasanin ha smesso di parlare dopo la sua scomparsa, si è autodistrutto fisicamente fino alla morte. La madre invece ha reagito con forza, aveva altre figlie, poi sono arrivati i nipoti, doveva esistere; danzava e rideva tutto il tempo portandosi dentro questa tragedia. Non ne ho mai parlato con lei, ma non volevo ferirli, forse ho fatto il film adesso perché sono tutti morti – la sorella di Nasanin è ancora viva ma non ho rapporti con lei. Ripeto, spero che il mio film sia per tutti, voglio che non si dimentichino le persone che lottano. Di Nasanin non abbiamo mai trovato il nome sulla lista dei deceduti, il carcere è stato poi svuotato nelle fosse comuni, come è accaduto in altri paesi, la Spagna, l’Argentina, la Cambogia… Questi fantasmi sono come una traccia che seguo, con cui costruisco una storia perché appunto non vengano cancellati, perché si sappia di loro semmai un giorno scavando ne scoprissimo i resti come accade nel film di Guzmán Nostalgia de la luz.
A proposito di silenzio: la madre che a un certo punto grida ovunque il nome del figlio dimostra quei cambiamenti di cui parlavi.
Probabilmente la forza che ha questa donna mi ha spinta a raggiungerla nel coraggio di chi prende la parola ogni giorno. Lei posta su Instagram quotidianamente qualcosa sulle altre madri, contro l’oblio. La storia si ripete in modo diverso, si uccide sempre in prigione ma le famiglie adesso sono là insieme, e anche se non si conoscono sono unite dal fatto di avere un figlio o una figlia assassinati, condividono le immagini, i fuochi, le luci, è un movimento collettivo che agisce a livello individuale. Le ragazze prendono dei rischi incredibili, pensa alla giovane donna che si è spogliata all’università: non sappiamo cosa le è accaduto, è in un ospedale psichiatrico, ma è un simbolo come era il ragazzo a Tienanmen. Perché ciò che ci è chiaro ora è che dobbiamo fare una rivoluzione, questo sistema non può essere riformato.