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Preparandomi a questo incontro – Le madri di tutte noi – ho pensato che per riuscire a parlare in un tempo ragionevole del Catalogo, che è così ricco di parole ed espressioni, l’unico modo era stare a quello che mi veniva in mente, anche se taglia via tanto altro.

Intanto, come è andato il mio incontro col Catalogo? Una volta Angela mi interpellò su come rispondere alla proposta di una rivista americana di tradurre e commentare testi femministi che parlassero del rapporto tra politica e letteratura e allora mi venne in mente il Catalogo giallo. Non lo avevo mai letto e per la verità non lo avevo nemmeno mai visto, ma lo conoscevo da Non credere di avere dei diritti, dove lo si ricorda, tra altre cose, come il momento della scoperta che le donne tra loro sono diverse. 

L’impasto di letteratura e politica fa parte anche della mia esperienza diretta: una gran parte del mio apprendistato femminista l’ho fatto coi romanzi. Leggere e condividere letture, spesso sul suggerimento di un’altra, mi ha dato un orientamento, un piacere, che potrei chiamare di visione, di un vedere, grazie a lei che ti dice qualcosa, qualcosa che già sai, in qualche modo, ma finora era solo dentro di te, e anche un piacere di rider sopra ciò che si vede, un piacere che ogni volta mi ha fatto sentire più ricca. È quello che ritrovo detto nelle parole che presentano la rubrica Libri preziosi,sul sito della Libreria: «Questo è un elenco tendenzioso e parziale di libri che ci hanno parlato. La scelta è dettata unicamente dalle nostre preferenze, e dal fatto che dopo ogni lettura ci siamo trovate a guardare la realtà con altri occhi». 

Quando ho letto il Catalogo vi ho trovato tutto quello che ho imparato a chiamare pensiero femminista del simbolico, nel suo farsi. Non credere enuncia i suoi punti molto chiaramente, sin da quando nel sottotitolo si definisce come il racconto della generazione della libertà femminile nelle vicende di un gruppo di donne… e ti dice subito, così, che la libertà femminile non è una cosa astratta, che «bisogna esserci per viverla» (come oggi la Libreria descrive la sua politica), va insieme alle donne che la fanno mentre la cercano, «preferendo altre donne»… 

Nel Catalogo è questo che circola, avviene, si addensa e trova dei momenti di espressione di particolare intensità. 

Per me il passaggio più importante, quello che mi ha toccata più profondamente, è quello con cui inizia la parte su Gertrude Stein, e che ora vi leggo; per me qui c’è l’assunto (se posso chiamarlo così) più potente della politica del simbolico, in tutto il brano e specie nelle parole conclusive, «Vuoto simbolico, pieno di esistenza».

Abbiamo letto i libri della Stein in ordine cronologico.

Più cresceva la complessità (o la semplicità) della scrittura, più cresceva anche il nostro coinvolgimento, più cresceva il suo distacco dalle ideologie più cresceva il nostro piacere, più la sua scrittura dava conto dell’esistente, più ci siamo sentite libere.

Una cosa è una cosa è una cosa e non più soltanto una rosa è una rosa è una rosa.

Una scrittura che dà conto della superficie, che dice quello che tutti vedono se guardano.

Una scrittura senza sforzo ed esatta, che accosta e non subordina eppure è precisa, che non ha centro, che non ha una direzione privilegiata e scardina ogni possibilità di gerarchia. Una scrittura senza soggetto, senza il soggetto del libro e senza il soggetto che scrive il libro, perché il genio – cioè lei – è solo chi dice quello che si vede, cioè quello che esiste.

Così l’autobiografia è di tutti, Ida è solo un nome più i fatti che la riguardano, ad avere un’identità la Stein rinuncia con tranquilla pacificazione.

Non a caso – lei dice – è stata una donna che ha saputo guardare, senza schemi di collegamento prefigurati nella mente o nell’occhio. Una donna perché le è più facile essere fuori dagli schemi conoscitivi, dalle ideologie.

Poiché non ha nessun interesse particolare da sostenere: la società, la memoria, la cultura, sono dei padri. 

Vuoto simbolico, pieno di esistenza. (p. 32)

“Vuoto simbolico, pieno di esistenza”, io me lo sono ridetto così: stare nel vuoto senza cadere nel nulla

Il “vuoto” è la consapevolezza che l’esperienza, l’esistenza femminile non è, se la cerchi nel simbolico “dominante”, ma quando raggiungi questo vuoto non cadi nel nulla, perché il vuoto è anche un silenzio, il finalmente tacere delle definizioni, dei costrutti, delle missioni o dei valori affidati alle donne e in questo vuoto-silenzio finalmente puoi sentire qualcosa. 

Nel Catalogo il passo che precede immediatamente quello su Stein dice: 

«Non temere più» «e anche io mi sono detta per giorni “non temere più”, ritornello che nel libro suggerisce che ciò che è stato perduto o di cui si è mancanti può essere ancora ritrovato o ricostruito» (p. 30. La Signora Dalloway).

Ciò che si è perduto e di cui si è mancanti è la relazione con la madre, l’altra, se stesse (e questo punto è il punto di tutto il Catalogo, di tutta la nostra politica); il dominio maschile si è espresso nella violenta intromissione nei rapporti tra donne e pertanto nel rapporto di una con se stessa (il tema delle prime pagine di Non credere, dicevo, e nel Catalogova quasi da sé che in Tre esistenze di Stein la storia del rapporto tra Melanchta e Rose è la storia di una «relazione femminile turbata dal rapporto con l’uomo»).

La posta in gioco, ciò di cui vi è mancanza, non è il riconoscimento, i diritti, o il potere (che altri detengono, che ti rinviano sempre a quel simbolico dove non sei) ma la capacità di stare in rapporto con la fonte della vigoria di ogni donna, e cioè con la propria simile (e questa mancanza può essere colmata da noi stesse, e solo da noi stesse, tra noi): «Ciò che ho visto nelle varie scritture per il tramite delle immagini partecipava sia della natura delle cose reali che delle cose immaginate, ma in entrambi i casi il linguaggio era legato a una pratica reale e all’ingiunzione di essere lì dove doveva essere, un luogo di donne» (p. 30).

Oppure: 

«Non ci troviamo più rinserrate tra mimetismo e silenzio: come Elsa Morante con le sue invenzioni, anche noi ne siamo fuori per qualcosa, la pratica dei rapporti tra donne e la riflessione su di essi» (p. 28).

Ecco che quando fai vuoto non cadi nel nulla. 

Come in altri innumerevoli aspetti del Catalogo, nel passaggio su Stein, da cui sono partita, è presente un tema che sarà svolto molte altre volte, per esempio tutte le volte in cui Luisa Muraro, come fa nell’Ordine simbolico della madre, ti dice “a un certo punto bisogna arrestarsi nell’ordine delle negazioni”, altrimenti finisci nel nulla davvero. Una complessa presa di posizione filosofica (la critica all’eccesso di costruttivismo) è una reale questione di vita. 

Il Catalogo ti invita a sostare nel vuoto, a non affrettarti a riempirlo. 

Il Catalogo dice chiaramente che un modo per non sostare nel vuoto, per non approfittarne, e allora per cadere davvero nel nulla, è anche cedere al troppo pieno, l’identità troppo intensamente ricercata, il dispendio emotivo per l’una o l’altra buona causa… 

Ci sono molti passaggi dedicati all’identità (Stein fa «una lotta contro l’identità» (p. 33) e le lettrici lo legano al suo modo di scrivere, aderente alla realtà, «che accosta e non subordina» (p. 32) col suo presentarsi slegata, frammentata: «L’adesione all’esistente riduce il problema di avere un’identità» (p. 38).

«In Ida si avverte la massima distanza dall’identità. Sappiamo che lei [Stein] non crede possibile né utile affaccendarsi per raggiungere un’identità, il problema – ripete lei – è essere, anche se ricercare un’identità è una piacevole debolezza della natura umana» (p. 43).

Quel quel che ne ho capito io, è che l’identità è anche uno schierarsi su fronti ideologici (Stein non prende posizione sul fascismo e la guerra, e alcune lettrici glielo rimproverano). Per esempio: Ivy Compton-Burnett, dice «“io sono un neutro”» e le lettrici scrivono «l’identità non le interessa» (p. 63). Proprio per questo può condurre la sua ironica, destabilizzante lettura del reale, che apre i buchi.

Luisa Muraro parla dei “buchi” (lo fa per esempio ne Le amiche di Dio), i buchi di un reale troppo compatto, necessari alla trascendenza femminile; il troppo pieno “tappa tutti i buchi” tutti gli strappi, gli scarti, le contraddizioni che vivi nell’apparente compattezza di un ruolo o, appunto, di una identità, e che invece servono perché passi la parola, l’esperienza, l’esempio, che ti dice che non sei affatto tutta lì, che nulla è tutto lì… i buchi servono perché da una trama fitta di “dover essere” che ti allontana dalla sua simile passi la tua simile, la preferenza per lei e quello che questo orientamento ti dà in più. Il Catalogo parla di “frammenti”, li preferisce, ma sono “i buchi”. Cose più preziose di una identità.

A me è questo che oggi risuona in modo forte del Catalogo, perché sento che siamo di nuovo chiamate a schierarci, a dare un’identità come si danno i documenti, e cioè a dichiarare da che parte stiamo… Spesso confrontate con una realtà che è realissima (la guerra) ma anche fantasmatica (Trump, Musk, le destre e le sinistre woke che “ci attaccano”…, tutte cose che si toccano e ci toccano, ma lo fanno in un modo strano, perché in realtà sono lontane, diverse, mentre risultano vicine, assimilate,  e questo mi ricorda quello che Stein non fa … con la sua lingua «che non è tirata a esprimere sintesi grandiose», lei evita di «collegare distanze di spazio e di tempo che non si potrebbero mai toccare nell’esperienza» (p. 37). 

Oggi, sento il peso e il pericolo di interpretare la mia posizione di donna come piegata a dover rispondere all’imperativo di offrire una sintesi grandiosa che metta a tacere tutti i conflitti, si dimostri al riparo da ogni contraddizione, sia inattaccabilmente nel giusto, mentre è diventata così insicura… Se io sono sicura che un mondo in cui il legame materno sia sostituito da una tecnica impersonale non è buono per nessuno, perché mi faccio incrinare dal dubbio di chi mi dice che difendere il legame materno li danneggia? Mi viene a mente una frase di Lia Cigarini, quando diceva, nella Politica del desiderio, che un diritto femminile sarà ben capace di occuparsi anche degli uomini, non lo abbiamo sempre fatto? Certo non lo faremo stilando un Programma di Gotha, però, non siamo venute al mondo per ripetere

Voglio dire, che qualche volta in questo oggi guerresco, militarizzato, fatto di amici e nemici, io oggi vivo la sensazione che il dover dimostrare che siamo dalla parte giusta ci tolga la parola, la parola per dire il modo in cui fa davveroproblema la realtà difficile dell’oggi, per ciascuna di noi nel suo concreto. 

Allora io sento il bisogno di pregare con Bachmann, e con Pia: «Parola, stai al nostro fianco» (p. 53). 

Questa espressione richiama la parola metonimica, che ti sta accanto, che non sostituisce ciò che senti e che sei, non annulla con un registro metaforizzante la realtà che viviamo, i disagi, le paure, le ambizioni, le delusioni e le mancanze. Con questo faccio mia una famosa (per me) frase del Catalogo: «difendendo la Stein difendo me stessa», «così anch’io autorizzo la mia anomalia a vivere» (p. 57). La politica delle donne come versione perfezionata, e cioè l’imitazione perfetta, il portare a perfezione la politica maschile? Io credo che qui ci sia un ricatto e un pericolo, che sono noti. Mi vengono a mente le frasi con cui il Catalogo va verso la sua conclusione, e che parlano secondo me dell’autorità femminile e della politica femminile, fatta di trama complicata e indefinibile, perché non imita e non ripete le relazioni e le gerarchie note, le loro identità, i loro schieramenti, ma molto concreta, perché fatta del riferirsi in concreto ad altre, e allora anche se ti senti persa non sei persa.

Perché «c’è un corpo nell’armadio, non ancora cadavere».

Ancor prima di un desiderio tra noi, abbiamo condiviso il piacere di un sospetto riguardo alla naturalità della nostra condizione nel mondo, e al pieno del simbolico maschile. Abbiamo sospetti particolari sul mondo e anche su di noi, da sostenere non in vista di una redenzione universale, ma nella particolarità di un’ironica esperienza femminile. Quando abbiamo cominciato a dire del vuoto (e ancor prima, già nello stare tra noi), abbiamo accettato un non senso. Da qui, Compton-Burnett insegna, si può trarre un piacere raffinato, quello che riesce a comunicarci con la sua scrittura. Che non si deve temere il non senso. Fra le streghe medievali e gli automi settecenteschi, c’è lo spazio delle ambigue libertà che stiamo abitando; a volte riusciamo a fissare qualcosa (un arco, un angolo, una stella, un segmento…) ma per lo più siamo allusive, rispolverando spesso una vecchia forma di comunicazione femminile mai lasciata impolverare: il pettegolezzo, il cui gusto non sta tanto nel giudicare, quanto nel renderci complici tessitrici di sospetti. Fuori dai momenti ufficiali delle riunioni, si crea tra noi una fitta rete di pettegolezzi, che alimentano i fantasmi, creano alleanze ansiose e precarie, ma anche alludono a un qualcosa che non ha altro modo di esistere. È un modo provvisorio di condurre i nostri giochi e indica che la soluzione non sta nella prepotenza di un giudizio o di un azzittimento, ma di una forza particolare che tenga conto anche di questa rete sospesa. (p. 67)

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025