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Da il manifesto

Ha compiuto ieri 78 anni Franca Viola: nata ad Alcamo, provincia di Trapani, è stata la prima donna in Italia a rifiutare pubblicamente un matrimonio riparatore. Il 26 dicembre 1965, a quasi diciannove anni, era stata rapita e segregata per otto giorni dall’ex fidanzato, Filippo Melodia, venticinquenne rampollo di una famiglia mafiosa locale che non accettava la fine della relazione. Durante la prigionia subì violenze fisiche e psicologiche, mentre i parenti di Melodia cercavano di imporre ai suoi genitori la paciata, accordo volto a pacificare la vicenda con le nozze riconciliatrici.

All’epoca l’articolo 544 del codice penale prevedeva che il matrimonio cancellasse i reati di sequestro e violenza carnale, proteggendo l’aggressore. Non solo: per il senso comune dell’epoca l’“onore” perduto della giovane donna e della sua famiglia veniva così “ripristinato”. Non restava che sposare lo stupratore, ma Franca Viola disse No. Il suo rifiuto è stato un gesto rivoluzionario che ha scosso l’opinione pubblica, avviando un acceso dibattito che molto più tardi, nel 1981, è culminato nell’abrogazione di quella norma odiosa. «Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce», aveva dichiarato la donna.

Parole che risuonano terribilmente attuali: riecheggiano quelle pronunciate di recente dalla francese Gisèle Pelicot, quasi coetanea di Franca Viola. Sedata e abusata per anni dal marito e decine di altri uomini, ha affermato che «la vergogna deve cambiare lato». Una frase diventata subito un potente slogan femminista perché svela un retaggio culturale duro a morire: l’idea che “colpa” e “vergogna” debbano ricadere su chi subisce le violenze. Anche Gisèle ha scelto di affrontare la questione con il coraggio di un processo pubblico riecheggiando un principio chiave del femminismo: il personale è politico.

“Onore” è tuttora un concetto evanescente. A differenza di altre parole a cui spesso si associa – onestà, integrità, moralità – viene sancito solo da sguardo e giudizio altrui. Ma è soprattutto il suo rovescio – il marginalizzante “disonore” – ad avere una connotazione spettrale: il peso insostenibile della vergogna pubblica, la diffamazione, il venir meno non solo della propria rispettabilità, ma del buon nome dell’intera famiglia. Dinamica che spesso, come un’ombra, si estende sull’intera comunità. Quando la buona reputazione è legata alle aspettative che una determinata società ha sui comportamenti considerati appropriati per le donne, si innesca quel legame fatale tra onore e genere in nome del quale si agisce la violenza. Un capitolo tutt’altro che concluso. Anche in Italia.

In diversi paesi europei con il termine honour-based violence si indicano un insieme di forme di violenza di genere con specifiche caratteristiche. La definizione non è un vezzo, nominare le cose aiuta a farle uscire dall’oscurità. E infatti la violenza basata sull’onore è fenomeno sommerso, di cui si ha poca contezza, che oggi avviene soprattutto all’interno di alcune comunità di origine straniera e in contesti familiari con forte controllo patriarcale. Ne sono esempio matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili, aborti forzati (compresi quelli selettivi), femminicidi d’onore e in generale il controllo del corpo e dei desideri delle donne, le aspettative costruite sui loro comportamenti.

Secondo un rapporto di Action Aid ogni anno nel mondo almeno 12 milioni di minori o giovani donne rischiano di subire un matrimonio precoce e forzato. In Italia, dove il matrimonio forzato è stato inserito come reato all’interno del Codice Rosso solo nel 2019, non abbiamo dati sufficienti. Nel 2023 la polizia ha raccolto 28 denunce, ma sono numeri opachi. Si stima che ogni anno siano a rischio 2mila bambine e ragazze (Action Aid).

La violenza legata all’onore viene agita soprattutto contro ragazze straniere o di origine straniera, come nel caso del femminicidio di Saman Abbas, la diciottenne italiana di origine pakistana strangolata dai propri familiari nel 2021 perché aveva rifiutato un matrimonio combinato e gettato, secondo loro, “disonore” sulla famiglia. Ne parla il documentario @italiangirl – La storia di Saman Abbas (2024) di Gabriele Veronesi e Luca Bedini, che ricostruisce la vicenda attraverso voci diverse e complementari: imam, parroco, forze dell’ordine e una giovane che ha vissuto una situazione simile.

Tiziana Dal Pra,attivista e fondatrice dell’associazione Trama di Terre, più volte chiamata in causa nel documentario, mette spesso in guardia dalla polarizzazione su questi temi. Da un lato c’è chi evita di parlarne temendo accuse di islamofobia o di stigmatizzare intere comunità, dall’altro chi strumentalizza tragici eventi per alimentare xenofobia e razzismo. Le recenti dichiarazioni del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara rappresentano l’esempio perfetto di tale deriva. Durante l’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, ha negato l’esistenza del patriarcato e collegato l’aumento della violenza di genere alla presenza in Italia di stranieri irregolari. Come insegnano i movimenti femministi la violenza di genere è un fenomeno strutturale e trasversale, che attraversa culture, confini, tempi e luoghi. Invero c’è un tratto che accomuna gli aggressori: non la nazionalità, ma l’intima conoscenza delle oppresse. Stupratori, aggressori, assassini nel 90% dei casi sono mariti, compagni, padri, ex. Hanno le chiavi di casa.

C’è un’espressione che attraversa storie, luoghi e generazioni come un filo rosso: la paura, o forse l’ossessione, del giudizio altrui. Cosa dirà la gente (Hva vil folk si) è il film del 2017 di Iram Haq, racconta la storia di una ragazza norvegese di origine pakistana accusata dal padre di aver portato vergogna sulla famiglia. Come punizione viene deportata in Pakistan e segregata dagli zii per essere “rieducata”. Parole che riecheggiano una vecchia storia, quella di Lucia Galante, costretta dai genitori a sposare un uomo che non amava. Anni di violenze non erano bastati a spezzare quel legame imposto, perché «Sono gli uomini a decidere. O meglio, è il loro pregiudizio sul giudizio degli altri: “Mo la gente ch’ dic?”». Lucia decise infine di fuggire con l’uomo che amava. Dalla loro unione è nata Maria Grazia Calandrone, che ricostruisce la vicenda familiare nel romanzo Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022). Ma la storia ha un epilogo tragico: il 24 giugno 1965, sopraffatti da pressione sociale e stigma, i genitori di Maria Grazia si tolgono la vita gettandosi nel Tevere, lasciando la figlia di appena otto mesi nel parco di Villa Borghese, a Roma.

La vicenda di Franca Viola si svolge solo sei mesi dopo, alla fine del 1965, quando rifiuterà il matrimonio forzato con grande coraggio, ma anche con la fortuna di avere il sostegno del padre, aprendo così una strada di riscatto per molte altre donne. Come ricorda Calandrone, la sua storia familiare non è un’eccezione: anche senza epiloghi tragici, storie simili hanno segnato la vita di molte famiglie italiane. Quella dinamica di controllo e giudizio sociale riguarda il presente di molte. Donne di origine afghana, pakistana, bengalese, nigeriana, ivoriana, come racconta il libro Femminicidi d’onore. Dal processo «Saman» ai diritti negati delle donne migranti (a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti, Futura Editrice, 2024). O come testimonia Lilith, una donna bengalese che sotto pseudonimo ha voluto raccontare la sua storia di resistenza e salvezza Le femmine e i cani non possono entrare (Terre di Mezzo, 2023).

Dobbiamo molto a Franca, Gisèle, Lucia, Saman, Lilith e a tutte le donne che si sono ribellate. Le loro battaglie sono, in fondo, la stessa battaglia: quella per libertà e autodeterminazione. Come ricorda Dal Pra, questa va condivisa da donne native e migranti, unite contro ogni violenza.

L’autrice coordina il progetto Fatima2 per Arci nazionale.