Condividi

Tra gli importanti contributi che hanno aperto l’incontro della redazione aperta di Via Dogana sul tema del denaro e la discussione che ne è seguita c’è una parola/un concetto lanciato da Daniela Santoro nella sua introduzione che ha trovato, non solo in me, un’eco speciale, una risonanza che connetteva istantaneamente il presente e il passato. È la parola “energia”.

Il presente evocato è l’adesso, raccontato parlando del proprio rapporto con il denaro, complesso in sé, radicato nei vissuti familiari di ognuna e rielaborato individualmente o collettivamente dentro un percorso femminista.

Oggi è quasi più difficile parlarne che in passato – il denaro è ancora molto “tabuizzato” per usare un’espressione di Ida Dominijanni – perché la questione si scontra con una situazione inedita e che molti definiscono “di caos”, cioè dove nulla sembra più funzionare.

Le disuguaglianze sono aumentate in maniera inaudita, il lavoro è cambiato e va in una direzione di impoverimento che non sembra dipendere dai comuni mortali, siamo finiti con sorpresa e sconcerto dentro una situazione di guerra, c’è difficoltà a far avanzare la consapevolezza sui rischi climatici ed ecologici che corriamo.

Chi l’avrebbe mai pensato in questi termini così radicali? Che cosa ne deriva?

Per me direi che ne deriva un umore basso, un pensiero connotato di ansia e pre-occupazione, entrambe alleate nell’immobilizzare e passivizzare. 

D’altra parte pre-occuparsi non vuol dire occuparsi.

Chi ha approfondito cosa avviene all’interno delle persone e nelle relazioni dice che l’Italia e tutto l’occidente è caduto in una tristezza/un umore depresso che si manifesta con disinteresse per la politica, un sentimento di impotenza verso l’enormità della guerra e aspettative di un potere autoritario che faccia ordine. 

È a partire da qui, da questo umore o sentimento, che ha preso il via per me il ricordo del passato e la ricerca di che cosa ci muoveva allora, così decise, così sicure. 

Parlo del periodo che sinteticamente definiamo “il ’68”, ispirato agli ideali di giustizia sociale, che ha visto germogliare e poi prorompere il femminismo. È stato per noi donne un periodo magico dove si è avviato il nostro “riposizionamento” nel mondo.

Riportare ad allora può far pensare a visioni utopistiche, non trasformative. Non è stato per nulla così. Alla rivolta del ’68 e al grande movimento delle donne sono seguite le più importanti conquiste degli ultimi cinquant’anni sul piano dei diritti essenziali: la riforma del diritto di famiglia con l’abolizione del pater familias, le possibilità di scelta nei rapporti donna-uomo (divorzio), la possibilità di una maternità consapevole e voluta (liberalizzazione degli anticoncezionali, aborto). E altre ancora tra le quali, di primaria importanza, la sanità pubblica introdotta da Tina Anselmi.

Ripenso a cosa ci muoveva allora. 

Per quella generazione c’era la giovinezza, certo, ma questa non è di per sé garanzia di un cambiamento positivo e per me auspicabile. C’era invece tanta motivazione, passione e desiderio perché venivamo da un passato buio, sessuofobico, fatto di proibizione e sottomissione. 

Oggi, a condizioni profondamente mutate, quell’energia stenta a riprodursi e mi pare che tutte/tutti soffriamo un po’ di questa assenza. 

Rinalda Carati si chiede: «Come si elabora il lutto di tutto quello che in questo mondo sta finendo perché ne sta cominciando un altro?»

Personalmente ho spesso l’impressione che viaggiamo su un piano inclinato che porta verso il basso, mentre abbiamo bisogno di trovare di nuovo direzione e orizzonte. In questo contesto penso che l’energia vada intenzionalmente alimentata perché non trova condizioni favorevoli e, spontaneamente, si produce a stento. 

C’è bisogno di esempi positivi. 

C’è bisogno di aiutarsi, dice Vita Cosentino, «l’aiuto risolve la questione dell’energia». 

Linda Marana invita a «portare l’etica dentro il lavoro», fa esempi di attività di fundraising e dell’acquisto da parte dei cittadini di un’isola a Venezia per sottrarla all’acquisto privato e alla speculazione.

C’è bisogno di lotta. 

La parola lotta oggi è un po’ desueta. Va risvegliata e rinverdita. Ovviamente intendo lotta non violenta, quella che mette in pista immaginazione e creatività, non armi e violenza. 

È lotta anche, di grande importanza simbolica e comportamentale, produrre un linguaggio del cambiamento, non stereotipato, capace di sfuggire alle semplificazioni banalizzanti e alla neutralizzazione dei due sessi. 

Quello che ci siamo dette nell’incontro e la ricerca collettiva di prospettive e di azioni concrete esemplificate nelle relazioni introduttive e nel dibattito, sono già un esempio positivo di quella che per me è una direzione e un orizzonte auspicabile.