Il tacere dei soldi
Cecilia Alagna
18 Dicembre 2024
Quanti soldi sono abbastanza? È una domanda provocatoria che invita a farsi trovare allo scoperto, a rivelare l’intreccio che tiene insieme aspirazioni e condizioni materiali. L’argomento soldi è capace di stanare le contraddizioni dentro e fuori di noi per la peculiarità quasi impudente e sfacciata che lo contraddistingue, al tempo stesso si svela nella sua pretestuosità, nel suo continuo e imprescindibile evocare altro: relazioni, vicende, retaggi, storie.
Quanti soldi sono abbastanza? A questa domanda istintivamente mi viene da replicare in cerca di chiarezza: abbastanza per cosa?
Chiedere di quantificare l’avverbio abbastanza quando si parla di soldi è un po’ come cercare di stabilire quanto olio o latte ci voglia nella preparazione di un piatto quando la ricetta suggerisce “q.b.” (quanto basta); denaro e cibo non di rado occupano gli stessi spazi dell’esistenza: sopravvivenza del corpo, relazioni, affetti, dimensione sociale. L’avverbio “abbastanza” relativizza istantaneamente, mi chiama a incarnare il pensiero, cioè a dire ciò che so e a prendere le distanze dall’astrazione, dalle ipotesi che mi sono convenientemente lontane. Per me parlare di soldi è come camminare su un laghetto ghiacciato, sento gli scricchiolii, incedo con cautela mista a paura; scivolare in modo ridicolo sulla superficie dura e sprofondare nelle acque gelide sono due eventualità ugualmente probabili. All’inizio della mia vita i soldi – quelli pensati, voluti e prodotti dal pensiero maschile – sono stati una variabile dotata di una forza capace di imprimere una deviazione radicale a quello che sarebbe stato il mio futuro, quantomeno nelle sue potenzialità: il potere e la centralità riconosciuta ai soldi mi hanno imposto l’adozione e mi hanno consegnata a una extra-ordinaria vita con due madri. Proprio pochi giorni prima dell’incontro di redazione ho dovuto aprire il fascicolo della mia adozione nel quale sono contenuti documenti di ogni tipo, ricevute, traduzioni di documenti dal brasiliano1 all’italiano e viceversa, biglietti, prenotazioni, lettere; fra i vari fogli uno riesce sempre a trascinarmi a sé, si tratta di una lista di spese vive sostenute dai miei genitori adottivi e antecedenti l’adozione definitiva, cioè l’emissione del dispositivo giuridico; fra queste spese svettano cinquecentomila lire per spese di degenza ospedaliera e duecentocinquantamila lire di farmaci. Nel Brasile del 1985 l’accesso alle cure era un nodo pericolosamente economico e i soldi potevano divenire lo spartiacque fra la vita e la morte. Ero gravemente malata a causa della malnutrizione, in condizioni così precarie da essersi resa necessaria l’ospedalizzazione e la mia giovanissima madre, Angela, che allora aveva diciotto anni, non era in grado di sostenere quelle spese; un’altra donna le avrebbe coperte, una trentaquattrenne messinese di origini borghesi che lavorava, ironia della sorte, per una banca, la mia madre adottiva, Raffaella. Quelle cifre, scritte col solito ordine chiaro che contraddistingueva l’azione di mia madre Raffaella, fanno emergere ancora oggi il campo in cui le mie due madri si sono avvicendate, toccate, legate e i presupposti maschili ai quali entrambe hanno dovuto in parte subordinarsi ma ai quali si sono ribellate in un modo forse imprevisto. Da un lato un Brasile emerso dalla feroce e fallocratica dittatura militare e nel quale la più ineludibile delle fragilità – la salute – era un affare privato, dall’altro l’Italia che aveva beneficiato pochi anni prima della genialità di Tina Anselmi, madre volitiva di quel Servizio Sanitario Nazionale che ha reso quasi cosa viva il concetto di solidarietà; nel mezzo un sistema maschile che stava costringendo due donne a dare misura del valore della maternità adottando esclusivamente il parametro economico: Angela avrebbe perso, solo giuridicamente, la possibilità di dirsi (mia) madre perché priva di sostanze, Raffaella che avrebbe acquisito la possibilità di dirsi (mia) madre perché in una condizione socio-economica solida2. I soldi in questo caso, come in una buona parte delle storie di adozione internazionale, si imposero quale parametro di merito capace di tramutare la maternità in puro dato economico; questa maternità monetizzata non dice nulla di come le mie due madri si sentissero in quelle settimane di scambio e provo sempre una grande tenerezza per entrambe quando mi capita di pensarci. La reductio ad pecuniam non si impose solamente sulla maternità ma anche su di me in qualità di figlia e mi qualificò come una questione economica che andava risolta secondo parametri sui quali nessuna donna aveva potuto (o voluto) avere voce in capitolo; il dominio maschile crea strettoie e poi le chiama “ordine naturale e logico delle cose”. In un certo senso Angela e Raffaella furono protagoniste di una riproposizione ancora più grottesca (rispetto all’originale) del giudizio salomonico: quale delle due è la “vera” madre? Quella con più soldi, rispondono le carte. Eppure nessuna delle due mi stava contendendo, anzi direi che le mie due madri proprio in quei giorni strinsero un patto silenzioso di mutuo riconoscimento: in nessun momento della vita mi è stato chiesto di stabilire quale delle due fosse la mia “vera” madre: Raffaella non ha mai avuto la mira di essere “l’unica”, pur avendo dalla sua la forza della legge; Angela non si è arroccata nel fortino di quella “vera”, “l’originale”, nemmeno quando ci siamo ritrovate dopo 26 anni e pur avendo dalla sua la forza dell’avermi generata e amata ancor prima che io nascessi.
Le mie due madri mi hanno dunque insegnato cosa significa “amore incondizionato”, che è un amore non tanto senzacondizioni quanto un amore nonostante le condizioni e che non va inteso come amore autodistruttivo e nullificante. Evito come se fosse peste il soffermarmi a pensare a quali squarci interiori entrambe abbiano vissuto nella consapevolezza ineludibile che nessuna delle due avrebbe potuto detenere alcun primato, diritto di prelazione, posizione di vantaggio: erano parte, congiuntamente e disgiuntamente, di ciò che per me è il senso della parola madre; probabilmente hanno passato la vita col vago senso di essere l’una sotto lo scacco dell’altra. La specifica, relativa e situata materialità della mia condizione fa sì che, in qualità di figlia, la frase “di madre ce n’è una sola” sia ciò che Arendt chiamava “affermazione priva di senso”. Per molto tempo ho invidiato chi, per pura casualità e quindi senza colpa, poteva vivere tranquilla riconoscendosi in quella massima senza rendersi conto degli aspetti di comodità legati ad avere una e una sola madre, anche nel peggiore dei rapporti madre-figlia. Tornando all’aspetto economico, quando penso alla condizione adottiva, a ciò che ha costretto mia madre Angela ad accettare il percorso di adottabilità, a ciò che ha consentito a mia madre Raffaella di accedere al percorso adottivo, mi rendo conto che la condizione umana eccede tutti i parametri con cui cerchiamo di gestirla o dirla, e il denaro non fa eccezione. I soldi sono tracce di un vissuto e, come ho cercato di dire all’inizio, fungono da rimando, alludono, evocano ma sono muti davanti al peso specifico dell’umanità.
Fra le parvenze più insidiose di questo tempo c’è quella secondo cui i soldi abbiano il potere di definire il nostro valore, molto più che in passato, e quell’eccedenza della condizione umana è sotto attacco simbolico: da strumenti – non necessari – che possono facilitare sono stati resi quasi un soggetto capace di tramutare la persona in strumento, convincendola che essere-in-funzione del denaro non solo sia cosa giusta e accettabile ma sia persino fonte di soddisfazione e autorealizzazione.
Provo sincero terrore davanti a un capitalismo feroce che sempre più chiede a ciascuna e ciascuno di noi di pensarci adottando proprio il denaro come parametro e di ridurci sempre di più a qualcosa che può essere venduta e comprata; l’edonismo individualista automercificante che ci vorrebbe ridotte a monodimensionalità diventa però una strategia priva di potere nel momento in cui riconosciamo autenticamente la condizione umana, per farlo però dobbiamo accettare il rischio di ribellarci e dobbiamo trovare il coraggio di stringere patti e alleanze che costeggiano, stanno altrove, rispetto a ciò che ci viene impacchettato e consegnato come l’unica strada percorribile. Il coraggio di Angela e Raffaella che dal 1986 sono le mie due madri.