Sono soldi i soldi?
Linda Marana
1 Dicembre 2024
Ci sono vari momenti della mia vita che hanno modellato profondamente il mio approccio con i soldi e attraverso i quali ho potuto osservare da vicino l’impatto che potevano avere non solo negli aspetti pratici dell’esistenza ma anche sulle relazioni, sulle scelte e sulla percezione di sé.
Nella mia famiglia i soldi non sono mai stati un argomento tabù. Al contrario, erano una presenza – o, a volte, un’assenza – costante nelle nostre vite. Fin da piccola ho capito che il denaro non era solo un mezzo, ma un simbolo, qualcosa che parlava del nostro passato e, allo stesso tempo, tracciava il percorso verso il futuro. Per i miei genitori, i soldi rappresentavano il segno di un’emancipazione tanto desiderata. Venivano da famiglie con un passato di povertà, dove ogni moneta aveva un peso specifico, dove i desideri si accantonavano per far spazio alle necessità. Quando mio padre avviò la sua azienda, il denaro non era più soltanto sopravvivenza: era la dimostrazione di “avercela fatta”. Era il mezzo per costruire una vita migliore, per darci opportunità che loro non avevano avuto, come quella di permettere ai figli di fare una vacanza-studio a Londra – anche solo per qualche settimana – per mostrarci un mondo più grande e ricco di possibilità.
Poi l’azienda fallì. Ricominciare da capo non fu solo una questione economica, ma anche emotiva. Era la frustrazione di vedere sfumare anni di sacrifici, la fatica di rimboccarsi di nuovo le maniche. Fu in quel periodo che iniziai a capire quanto fragile fosse il confine tra sicurezza e precarietà. Come scrive bene Annalisa Monfreda nel suo libro Quali soldi fanno la felicità?, l’emancipazione di un singolo promette sempre un’emancipazione collettiva: il successo personale si intreccia con il sogno di riscatto della famiglia, della comunità di provenienza. E proprio per questo quando tutto crolla il peso del fallimento diventa ancora più schiacciante. Non era solo un’azienda che chiudeva i battenti; era la promessa di un futuro migliore che sembrava improvvisamente sfuggire dalle mani. Quel momento instillò in me un profondo senso di responsabilità, spingendomi a muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Così, durante i weekend del liceo, iniziai a guadagnare i miei primi soldi. Il mio rapporto con il denaro nacque sotto il segno della necessità: non era un lusso, ma un mezzo indispensabile per contribuire e, in qualche modo, alleggerire il peso che sentivo gravare sulla mia famiglia.
Crescendo, ho imparato che i soldi non sono né buoni né cattivi: sono un elemento fluido, mutevole, che assume significato solo attraverso il valore che scegliamo di attribuirgli. E, soprattutto, ho capito che il loro peso non è inevitabile, che dal loro attaccamento si può fuggire, liberandosi dal potere che rischiano di esercitare su di noi.
Il mio secondo approccio con il denaro nacque dalla ricerca di indipendenza. Fu questo desiderio a spingermi a trasferirmi lontano da casa e a cercare un lavoro che mi permettesse di vivere in una città diversa. Quando iniziai a lavorare nel settore della cultura, però, mi scontrai con una realtà che non avevo previsto: essere sottopagata. Nonostante gli sforzi e le competenze che avevo acquisito, mi ritrovai spesso in situazioni in cui il valore del mio lavoro non veniva riconosciuto. Per passione e per necessità, mi ritrovai a fare fino a quattro o cinque lavori contemporaneamente. Era una realtà frustrante e svalutante, che mi portò a mettere in discussione non solo il mio percorso professionale, ma anche il mio valore personale. Essere sottopagata non era soltanto un problema economico; era una questione di dignità. Ogni stipendio che non rifletteva il mio impegno e le mie capacità mi faceva sentire intrappolata in una spirale di insoddisfazione e disillusione. Tuttavia, proprio da quella frustrazione nacque una consapevolezza importante: il valore che attribuisco a me stessa doveva diventare la base su cui costruire le mie scelte, e non quello che gli altri erano disposti a riconoscermi.
Dopo anni di lavori mal pagati, con compensi che a volte si aggiravano tra i cinque e i sei euro l’ora, decisi che non mi sarei voltata dall’altra parte e, seppur proseguire su quella strada costasse grande sacrificio e caparbietà, non avrei abbandonato il settore, anzi, avrei dato il mio contributo per migliorarlo. Lavorare nel mondo della cultura, mi resi conto presto, era ed è un privilegio per pochi. Non perché richieda meno competenze o dedizione, ma perché non tutti possono permettersi il lusso di lavorare gratuitamente. Eppure, nel settore aleggia sovente la narrazione tossica secondo la quale è normale prassi quella di “farsi le ossa”, accumulare anni di esperienza non retribuita, in nome della formazione, della passione per il bello, del sacrificio per una causa più alta. È una trappola sottile. Il fascino della cultura ti attira con promesse di crescita personale ma presto ti trovi intrappolato in un sistema che ti chiede di dare senza mai restituire. Le porte dell’arte, del teatro, dei musei sembrano aperte a tutti, ma in realtà, ancora troppo spesso, si spalancavano solo per chi ha spalle abbastanza larghe da resistere all’assenza di stipendi, contratti e tutele. È un mondo che ti respinge se non puoi permetterti di essere sfruttato. E, nel farlo, ti fa sentire come se la tua passione non bastasse, come se non fossi abbastanza. Ma la verità è un’altra: è il sistema a essere ingiusto, costruito su sacrifici che non tutti possono permettersi di fare. E così, il settore culturale diventa una torre d’avorio, costruita sulle disuguaglianze, sempre più lontana da chi vuole entrarci con il solo biglietto del talento e delle competenze. La cultura, che dovrebbe includere, ispirare, accogliere, diventa una macchina che esclude, sfrutta e scoraggia.
E anche qui risulta importante il tema dei soldi, un argomento spesso evitato durante i colloqui di lavoro, quasi fosse sconveniente parlarne. Ma ignorare il problema significa perpetuare il ricatto per cui se non si accettano le condizioni offerte, ci sarà sempre qualcun altro disposto a farlo per meno. Parlare di denaro, invece, significa rompere quel silenzio che rende i lavoratori ricattabili. Significa rivendicare il diritto a una retribuzione giusta, a una dignità professionale che non deve essere un privilegio, ma un fondamento.
Spinta da queste convinzioni nel 2022 contattai l’associazione Mi Riconosci?, e da quel momento iniziai il mio impegno politico contro i salari inadeguati, il sottoinquadramento e le ingiustizie subite da tanti lavoratori e lavoratrici del mio settore. È stata una svolta importante per la mia vita, che mi ha permesso di trasformare la mia rabbia e la mia esperienza in una lotta collettiva, per dare voce a chi, come me, voleva rivendicare il giusto valore del proprio lavoro. L’iniziativa di “Mi Riconosci?” nasce alla fine del 2015 dalla volontà di un gruppo di professionisti (o aspiranti tali) del mondo dei beni culturali (studenti e laureati, lavoratori e in cerca di occupazione) di cambiare la realtà lavorativa del settore. Situazione che si presenta complessa e articolata: professioni del tutto ignorate o riconosciute solo in teoria e in attesa di decreti attuativi o della fine di processi lunghi anni. Tutti, dagli storici dell’arte agli archivisti, fino ai diagnosti, abbiamo in comune gli stessi problemi: sviliti, sottovalutati, sottopagati, socialmente denigrati. Da qui l’idea di creare una campagna unitaria sull’accesso alle professioni dei Beni Culturali, sulla valorizzazione e riqualificazione dei titoli di studio del settore e l’impegno per raggiungere giuste retribuzioni.
Negli ultimi anni, complice un accumulo di una serie di esperienze insoddisfacenti, ho deciso di cambiare rotta e intraprendere la strada dell’attività da freelance. Non è stata una scelta facile: i rischi erano molti, le paure altrettanto. Ma quella decisione rappresentava per me un atto rivoluzionario di autonomia, un modo per affermare il controllo sul mio percorso professionale. Essere una lavoratrice autonoma mi ha permesso di stabilire un rapporto diverso con il denaro: non più un valore imposto da altri, ma un riflesso diretto del mio impegno, delle mie competenze e della mia capacità di negoziare il giusto compenso per il mio lavoro. La precarietà è ancora un’ombra costante, ma pur senza la sicurezza di uno stipendio fisso, mi ha permesso di capire che il denaro non doveva essere un fine, ma uno strumento: un mezzo per costruire la vita che desidero, piuttosto che una misura del mio valore personale.
Il mio rapporto con i soldi non è mai stato solo una questione di bilancio o numeri, ma anche di equilibrio tra ciò in cui credo e ciò che mi serve per vivere. Conciliare i miei valori etici con la necessità di guadagnare non è facile e spesso mi fa sentire scissa in due. Sensazione provocata dal sistema economico attuale che ci mette di fronte a scelte difficili, dove il bisogno di sicurezza economica sembra entrare in conflitto con ciò che riteniamo giusto o importante per noi stessi e per la società. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se accettare un lavoro che non rispettava i miei principi fosse un compromesso necessario o una rinuncia a ciò che mi definisce. Altre volte, ho scelto di rifiutare proposte apparentemente vantaggiose perché sentivo che avrebbero tradito le mie convinzioni. Questo mi ha insegnato quanto sia sottile il confine tra pragmatismo e idealismo e quanto sia importante, anche nelle difficoltà, cercare di trovare soluzioni che non sacrifichino la nostra integrità.
Credo che la vera sfida sia proprio questa: non fuggire dalle regole del sistema, ma comprenderle e sfruttarle a nostro favore per costruire un futuro più etico e sostenibile. E quando riusciamo a farlo, scopriamo che è possibile trasformare il bisogno di guadagno in un mezzo per creare altri tipi di valore.
Nonostante le difficoltà, ho capito che è possibile utilizzare gli stessi strumenti del capitalismo per creare qualcosa di diverso, qualcosa che rispecchi i nostri ideali. Un esempio che mi ispira profondamente è il progetto dell’Associazione Poveglia per Tutti. Attraverso il crowdfunding, un mezzo di finanziamento collettivo, l’associazione è riuscita a mobilitare centinaia di persone con una visione comune per acquistare e proteggere l’isola di Poveglia, ovvero un bene comune. Così facendo, hanno impedito che fosse sfruttata a scopo commerciale, promuovendone invece un utilizzo pubblico e sostenibile. Questo dimostra che, anche in un sistema spesso percepito come ostile, esistono spazi per realizzare iniziative etiche, che mettano al centro il bene collettivo.
Un altro esempio significativo è l’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN e il loro progetto di azionariato popolare. In questo caso, lavoratori e comunità hanno scelto di unirsi per rilevare e gestire l’azienda in modo collettivo, dimostrando che esistono alternative concrete alla logica del profitto a tutti i costi. Iniziative come queste mostrano che, sebbene il sistema sembri immutabile, ci sono modi per piegarlo a favore di un cambiamento reale e condiviso.
Queste esperienze sono importanti da citare e ricordare perché si oppongono al monopolio di quelle narrazioni che celebrano storie straordinarie di sacrificio, fatte di sudore e rinunce, dove “volere è potere” diventa l’unico mantra accettabile. Quelle storie che esaltano l’eroismo quotidiano delle bidelle che fanno le pendolari da Napoli a Milano, come se l’ingiustizia intrinseca di un sistema che costringe a tali estremi fosse qualcosa da applaudire, anziché da mettere in discussione.
Per concludere, il mio rapporto con il denaro è ancora pieno di contraddizioni, come un nodo che non si scioglie del tutto ma che, in qualche modo, tiene insieme i fili della mia storia. Eppure, come afferma Derrida, «la coerenza nella contraddizione esprime la forza di un desiderio». Forse è proprio questo: il desiderio profondo di conciliare ciò che faccio con ciò in cui credo, di trovare un equilibrio tra la mia professione e la mia etica, di non sentirmi più costretta a scegliere tra guadagnarmi da vivere e restare fedele a me stessa.
Ma c’è un’altra consapevolezza che nel tempo ha preso forma: i soldi, spesso visti come simbolo di oppressione o compromesso, possono diventare anche uno strumento rivoluzionario. Non sono un fine in sé, ma un mezzo potente, capace di trasformarsi in leva per cambiare le regole del gioco. È possibile usare il denaro per costruire, per finanziare iniziative che rispecchiano un ideale collettivo. E quando penso a progetti come il crowdfunding per l’isola di Poveglia o l’azionariato popolare del Collettivo GKN, vedo un esempio concreto di come il denaro, se usato consapevolmente, possa diventare un’arma contro il sistema che lo vorrebbe dominio esclusivo.
Così, auspico di poter conciliare il mio lavoro con la mia etica, trasformando il denaro non in un vincolo, ma in un mezzo per costruire qualcosa di più grande. E, un giorno, sentirmi finalmente intera.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024
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