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«Bisogna che tutti ci decidiamo: sono soldi i soldi o non sono soldi?»
Questa provocazione di Gertrude Stein, che troviamo nella raccolta di scritti e interviste realizzati tra il 1935 e il 1946 durante e dopo un suo viaggio negli Stati Uniti, recentemente riedito dalla casa editrice Vanda Edizioni, è stata il punto di partenza per i lavori di domenica 1° dicembre, durante la redazione allargata di Via Dogana 31. Nel suo stile frammentato e denso di ironia, Stein tratta il denaro non solo come strumento di scambio, ma come simbolo che permea le strutture sociali, culturali e affettive.

E così, chiedersi come fa Gertrude Stein Sono soldi i soldi? significa aprire uno spazio di interrogazione ampio: come il denaro modella il nostro modo di stare insieme, di collaborare, di costruire comunità? Il discorso quindi non si limita a una questione di ricchezza o proprietà, ma si collega ai meccanismi che fanno funzionare la società e alla possibilità di convivenza. Detto in altri termini: il denaro non è mai un’entità neutra o isolata, ma un elemento che struttura il modo in cui lavoriamo e condividiamo spazi e risorse. Anche se non se non ne parliamo.

Questo numero di Via Dogana 3 dedicato ai soldi l’ho voluto fortemente io, che intrattengo con il denaro un rapporto ambivalente. Sono cresciuta in una famiglia con pochi soldi, dove il denaro era una presenza silenziosa: non se ne parlava mai, eppure si percepiva che c’era un limite da non oltrepassare. I miei genitori non facevano discorsi espliciti, e conducevamo una vita dignitosa anche con poco, non ci hanno mai fatto mancare l’essenziale. Per dare a noi figlie e figli la possibilità di studiare, hanno fatto sacrifici e ci hanno insegnato a fare altrettanto. Io, di riflesso, mi sono sempre arrangiata: ripetizioni, babysitting, lavori precari, tutto pur di non gravare sul bilancio familiare.
La mia infanzia si è svolta in una provincia prevalentemente operaia e contadina, dove questo stile di vita era condiviso dalla maggior parte delle persone intorno a me. Il denaro, in quel contesto, non era un segno distintivo ma un elemento necessario. Solo con l’ingresso al liceo ho cominciato a percepire il denaro come misura del valore, il discrimine che segnava differenze profonde. Erano gli anni Ottanta, la società italiana virava sempre più verso un modello individualista e performativo, in cui la ricchezza visibile diventava un parametro del valore delle persone e delle famiglie. Pativo una viva contraddizione: da un lato, la vergogna per le mie origini e per ciò che consideravo un “mancare” rispetto agli altri; dall’altro, una ribellione profonda verso ciò che mi sembrava un’ingiustizia sociale.
Non mi dilungo sulla mia storia, ma riconosco in questa storia un tratto comune a molte. L’educazione che ho ricevuto, il non parlare dei soldi, aveva il preciso scopo di insegnarmi una serie di dettami morali: i soldi sono legati al lavoro che si fa, ed è il lavoro che ti rende libera, non il denaro; i soldi non si sprecano, ma sempre si deve aiutare chi ha bisogno; dei soldi non si parla perché sono un mezzo, qualcosa che serve, ma che non ha valore in sé. Anzi, il denaro veniva dipinto come qualcosa di “basso”, quasi sporco, da tenere ai margini delle conversazioni e delle relazioni.
Questo silenzio ha avuto conseguenze. Ancora oggi non mi pongo problemi a dare denaro, a condividerlo, ma mi riesce enormemente difficile chiedere ciò che mi è dovuto. È un’attitudine che sappiamo essere tipica di molte donne, radicata in un’educazione che lega il valore personale al sacrificio. E così c’è dentro di me un misto di forza e limite: conosco e sono parti di me l’indipendenza e la solidarietà, ma il mio rapporto con il denaro è anche legato a una sorta di colpa non detta, a una resistenza implicita nell’affermare il mio diritto al giusto compenso.
Il silenzio sul denaro è il riflesso di una cultura che ha relegato le donne alla marginalità economica, privandole non solo di risorse, ma di un linguaggio per parlare del loro rapporto con il denaro.
Questa ambivalenza verso il denaro non è solo personale: è il riflesso di un ordine simbolico e parlarne, come facciamo in questo numero, è un primo passo per riprenderci il desiderio di esserci anche in questa dimensione della vita.

Durante la preparazione di questo numero con la redazione ristretta, è emersa con chiarezza una frattura generazionale che attraversa il rapporto con il denaro. Io sono in una sorta di terra di mezzo, e vedo chi mi precede e chi viene dopo di me in modo che probabilmente giudicherete cinico. Da una parte, le donne delle generazioni più grandi, che potrei definire utopiste; dall’altra, le generazioni più giovani, spesso caratterizzate da un individualismo nato dalla necessità.
Le utopiste, a cui appartengono molte donne che mi hanno preceduta, portano avanti una visione che affonda le radici nelle pratiche femministe delle origini, fatta di comunità solidali e reti di scambio che sopperiscono alle carenze del sistema economico e sociale. È una prospettiva affascinante, che ha contribuito a costruire un immaginario alternativo al capitalismo, ma che oggi, in un contesto di mercati globalizzati e individualismo esasperato, rischia di sembrare una favola fuori dal mondo. La solidarietà è senza dubbio un valore irrinunciabile, ma può bastare da sola a rispondere a un sistema che lascia sempre più persone ai margini?
Dall’altro lato, vedo le generazioni più giovani costrette a navigare in un panorama socioeconomico che non offre scampo. Sono le individualiste per necessità, che si arrabattano in un sistema che non garantisce sicurezza né prospettive a lungo termine. Sono cresciute con il principio che la libertà si gioca nell’autonomia individuale, ma questa autonomia spesso si traduce in un adattamento a condizioni di precarietà cronica. Perciò il consumo diventa un linguaggio ambiguo: da un lato, un modo per affermare la propria identità; dall’altro, una risposta edonistica a un senso di esclusione sistemica. Non posso permettermi una casa, allora mi compro uno smartphone da mille euro. È un comportamento che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare irrazionale, ma che, in realtà, risponde a una logica: se non posso costruire un futuro, almeno mi concedo un piacere immediato.
Qui non c’è in ballo solo una questione generazionale, ma si tratta del riflesso di un cambiamento epocale nel rapporto tra donne e denaro. Le donne più grandi, cresciute in un contesto che permetteva di immaginare alternative collettive, hanno costruito una critica radicale al capitalismo, mostrando i limiti del denaro come misura universale. Le più giovani, invece, vivono in un contesto in cui le possibilità di costruire alternative sembrano ridotte all’osso, e dove il denaro non è più solo un mezzo, ma una fonte di frustrazione e conflitto interiore.
La sfida non è negare l’importanza della solidarietà né condannare l’individualismo delle più giovani, ma riconoscere che entrambe nascono da un confronto reale con il sistema economico in cui viviamo. Il punto non è scegliere tra utopia e necessità, ma trovare un modo per intrecciare queste due dimensioni, costruendo spazi in cui il denaro torni a essere uno strumento al servizio delle relazioni e non il loro limite. Un femminismo che vuole vivere nel nostro tempo deve saper tenere insieme la critica al sistema con le pratiche che rispondono alle sue contraddizioni.
Niente moralismo o predica edificante, sia chiaro. Il fatto è che un conflitto obbliga ciascuna a confrontarsi con la propria esperienza e il proprio passato, se il conflitto è generazionale il dialogo tocca il nesso tra quello che siamo oggi e quello che eravamo allora. La relazione che anche oggi, qui, mettiamo in gioco riattiva in ciascuna di noi la giovinezza, e contemporaneamente pone un’alterità che evidenzia il cambiamento, personale e sociale insieme. È un modo, mi auguro, di affrontare un mondo in costante e rapido mutamento, dove le più giovani, nel loro modo di interpretare il cambiamento, diventano una mediazione per continuare a pensare.

Riporto un brano significativo dal saggio di Giannina Longobardi pubblicato nel libro collettaneo La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro: «Il pensiero e la pratica di relazione delle donne ci hanno permesso di non pensare la nostra libertà come subordinata all’accesso diretto al mercato, e di attribuire valore simbolico a scambi personali nei quali si gioca qualche cosa che non è denaro. Sono state delle donne che ci hanno insegnato a vedere la disparità nello scambio, la non equivalenza delle posizioni nella contrattazione e lo squilibrio che è insito nella maggior parte delle relazioni per noi vitali.
Inoltre, mentre pare presente nell’agire maschile la presunzione che tutto abbia un prezzo e sia dunque acquistabile, le donne sanno che ciò che è più prezioso non si vende, si gioca in scambi che non hanno nella moneta la loro misura. C’è nella differenza femminile una forma di resistenza dell’umano al capitale. Le relazioni familiari, come le relazioni d’amicizia, come quelle d’amore e come quelle politiche, si basano su una forma di scambio che la logica mercantile tende a negare e a distruggere. Pure queste relazioni non solo resistono, ma in esse sta quasi sempre la parte più importante della nostra vita. Sono le relazioni in cui ci giochiamo personalmente, in cui diamo noi stesse, e nelle quali le persone contano per noi per la loro unicità. In queste relazioni scambiamo parole, attenzione, affetti, emozioni, ed anche beni: come cose, assistenza, ospitalità»2. Questo passaggio restituisce con lucidità uno dei guadagni del femminismo delle origini: l’apertura della possibilità di andare oltre la logica mercantile, illuminando la disparità insita nei rapporti di scambio e riconoscendo il valore incommensurabile di ciò che è umano: parole, cura, affetti, beni condivisi in una dimensione che eccede la misura dei soldi. È un pensiero che ha aperto una strada fertile, percorsa da molte voci che ne hanno approfondito le implicazioni. Pensiamo ai lavori di Ina Praetorius, al convegno La vita alla radice dell’economia3, dove si sposta il focus dall’economia come produzione di profitto all’economia come cura della vita, che si radica nell’attenzione, nell’interdipendenza, nella capacità di rispondere ai bisogni reciproci senza tradurli necessariamente in transazioni equivalenti.
Queste riflessioni sono importanti anche oggi, in un’epoca in cui la logica capitalistica sembra voler assorbire ogni aspetto dell’esistenza. L’idea politica che ci siano relazioni resistenti al capitale, che non si possano ridurre a calcolo o a prezzo, è pensiero critico e insieme possibilità di lotta per il cambiamento.
E però. Nel 2009 Vita Cosentino scriveva: «Qui in Italia ci sono (ancora per quanto?) dei meccanismi di redistribuzione che funzionano e sono per tutti. Nel mio caso, nel giro di qualche ora ero ricoverata nell’ospedale di Borgo Trento, in un reparto all’avanguardia in Europa, sottoposta a cure tempestive che hanno limitato il danno, ben assistita giorno e notte. Non ho mai pagato un ticket o quant’altro»4. Fino a quindici anni fa il sistema sanitario pubblico italiano funzionava e c’erano dei meccanismi di redistribuzione che garantivano a tutti un accesso equo ai servizi essenziali. Dal 2010 al 2019, il SSN ha subito tagli cumulativi di circa 37 miliardi di euro, influenzando negativamente la qualità e l’accessibilità dei servizi sanitari. Durante la pandemia, l’aumento del finanziamento è stato assorbito dai costi della gestione Covid-195. Secondo il rapporto della Ragioneria Generale dello Stato, nel 2022 la spesa sanitaria pubblica in Italia ha raggiunto i 129,2 miliardi di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente (127 miliardi). Parallelamente, la spesa sanitaria privata, sostenuta direttamente dalle famiglie (la chiamano tecnicamente out-of-pocket), ha superato i 40 miliardi di euro, mettendo quindi in luce un crescente aumento della spesa privata, che indica una crescente dipendenza dalle risorse familiari per l’accesso alle cure6. Nel 2022, il 76,3% della spesa sanitaria totale in Italia è stata coperta dal settore pubblico, una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente. Il restante 23,7% è stato finanziato privatamente7.
Oltre ai tagli sistematici ai finanziamenti, la carenza di personale e un sovraccarico strutturale hanno reso i servizi sempre meno accessibili e sempre più inadeguati a rispondere alle necessità delle persone. Tutte abbiamo esperienza di liste d’attesa insostenibili al punto da spingere chi può a ricorrere al settore privato. Per chi non può, l’unica alternativa è rinunciare alle cure.
L’esempio emblematico della sanità mostra le diseguaglianze sempre più in crescita che producono un senso di insicurezza sociale. L’idea di una rete di protezione collettiva, che offriva stabilità e coesione, è stata sostituita da un individualismo che alimenta il disgregarsi del tessuto sociale. In assenza di fiducia, le persone si trovano sempre più sole nel fronteggiare rischi e difficoltà, in un contesto dove la solidarietà istituzionale sembra svanita.
Questa trasformazione non è solo una questione economica, ma profondamente politica perché riguarda la struttura del contratto sociale.

Oggi c’è un grande senso di solitudine nei ragazzi e nelle ragazze, ce l’hanno raccontato direttamente le amiche giovani della redazione ristretta, spiegandoci che è alimentato anche dall’iperconnessione digitale, in cui si perde il senso di appartenenza a un mondo condiviso. Il bisogno di relazione spesso si ferma al livello virtuale, che abbonda di community, che lancia tendenze, che spinge a condividere contenuti e mettere in scena diverse versione di sé stessi. Il paradosso: virtualmente connessi senza soluzione di continuità, molti restano irrelati, incapaci di costruire legami autentici; vicini virtualmente (tramite like, chat, condivisioni), distanti da un punto di vista relazionale. Vediamo anche il bisogno di trovare figure di riferimento, relazioni concrete, scambio, come appunto è successo a noi della redazione di Via Dogana 3.
Ma è in questo sistema disgregato, che tende a monetizzare sempre più aspetti della vita, che affiora quello che prima chiamavo effimero edonismo. Perché il denaro rischia di entrare anche in spazi che dovrebbero esserne liberi, come l’amicizia, l’amore o la solidarietà. Questo fenomeno non misura direttamente il valore delle relazioni, ma influenza come le relazioni si formano e si mantengono, e le nostre amiche più giovani ci potranno illuminare su questi aspetti.

Come abbiamo scritto nell’invito a questa giornata, la sfida è come guardare al denaro e alle regole che impone in modo libero e creativo.


  1. Gertrude Stein, Sono soldi i soldi? Scritti americani, trad. Rosella Bernascone, Vanda Edizioni, 2024 ↩︎
  2. “Sono soldi i soldi?” in AAVV, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche Editrice, Milano 1997 ↩︎
  3. La vita alla radice dell’economia, a cura di Cosentino Vita, Longobardi Giannina, Libera Università dell’Incontro, 2008. La pubblicazione può essere acquistata alla Libreria delle donne di Milano ↩︎
  4. Tratto dall’intervento al Seminario di Diotima Alleanze e conflitti nel mondo comune di donne e uomini – Università di Verona – incontro del 20 novembre 2009: Giannina Longobardi e Vita Cosentino, “Nulla” è la forza che rinnova il mondo. ↩︎
  5. https://www.tpi.it/cronaca/crisi-sanita-ssn-al-capolinea-numeri-e-dati-202311041051184/ ↩︎
  6. https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=119152/ ↩︎
  7. https://www.milanofinanza.it/news/sanita-l-italia-sotto-la-media-ue-spendiamo-solo-il-6-7-del-pil-202407221545292229/ ↩︎

NOTA:
Nella preparazione di questo numero, ci siamo rese conto di quanto il tema dei soldi sia oggi centrale e affrontato da molte prospettive. Un contributo prezioso è il libro di Annalisa Monfreda Quali soldi fanno la felicità?, disponibile in Libreria, che esplora il rapporto tra denaro e felicità con uno sguardo attento alle donne. Annalisa Monfreda affronta temi fondamentali come il tabù del denaro, di cui anch’io scrivo nel mio intervento: il denaro è spesso evitato, considerato quasi immorale, e questo silenzio ha conseguenze profonde sulla vita personale e professionale delle donne. Il libro approfondisce inoltre come le esperienze familiari influenzino le scelte finanziarie e la percezione del proprio valore, toccando anche la disparità salariale di genere. Ancora, Annalisa Monfreda attraverso il suo podcast Rame raccoglie testimonianze sulle emozioni negative legate a guadagni, perdite e scelte economiche, evidenziando l’isolamento che queste situazioni possono creare. La sua proposta è chiara e urgente: parlare apertamente di denaro per ridurne il potere sulle nostre vite, promuovere una maggiore felicità e avviare un cambiamento profondo nel sistema economico.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024