A corpo libero. Tra sistemi di potere e ricerche di senso
Maria Livia Alga
21 Giugno 2022
Quando Vita Cosentino e Laura Colombo mi hanno invitata a pensare sulla forza femminile e sulle pratiche politiche che nascono da questa forza, la accrescono, e di questa forza si nutrono, ho sentito subito una affinità nelle parole che avevano scelto per darmi il la.
Il primo riferimento cui mi hanno rimandata è stato il numero di Via Dogana Ricominiciamo dal corpo. Mi ha toccata molto il fatto che a Verona con alcune colleghe dell’università, con le amiche del centro interculturale delle donne Casa di Ramia e del Circolo della Rosa, avevamo appena proposto il ciclo di incontri A corpo libero. Tra sistemi di potere e ricerche di senso. In questa coincidenza credo possiamo leggere un segno del bisogno diffuso e comune di un richiamo a qualcosa di radicale.
Giulia Valerio a proposito di queste forme di “regressione” scrive: “di solito attribuiamo un valore negativo alla parola regressione ma non dovrebbe proprio averlo: progressione, regressione sono due movimenti della psiche, della vita. La vita è composta di sistole e diastole. Quando ci troviamo di fronte a una difficoltà che ci sembra invalicabile regrediamo verso le sorgenti, torniamo alle nostre radici profonde per ritrovare energia diversa dall’ordinario e forze rinnovate. Durante la pandemia ciascuna di noi è stata spinta a cercare e trovare dentro di sé antidoti e rimedi; a orientarsi intuitivamente lungo una via che muove verso qualcosa di essenziale.” (“Per amore del mondo” n.17, 2020)
E aggiungo: è stato necessario pensare in modo più accurato la dimensione materiale dell’esistenza (a causa della percezione accresciuta della sua vulnerabilità) ma anche il mistero che la attraversa a partire dal respiro, il soffio vitale che la anima.
A Verona sentivamo la necessità di aprire uno spazio pubblico di dialogo sul bisogno di ritrovare la capacità di situarsi in un orizzonte di libertà in cui i sistemi di potere si relativizzano e prende peso la relazione con il senso dell’esistere, il gioco della vita.
Ci sembrava, quindi, che l’espressione “a corpo libero” nominasse una via – la via incarnata – per tenere insieme da una parte le domande che mettono in questione la giustezza delle regole sociali e il senso degli sconvolgenti accadimenti storici, e dall’altra le domande assolute sull’esistenza che ci aiutano a capire chi siamo e dove.
Ragionando su questa espressione ho messo a fuoco qualcosa che prima per me non era così chiara quando pensavo le pratiche politiche delle donne e le forze, soprattutto femminili, in gioco.
Quando infatti mi sono ritrovata a scrivere il testo introduttivo di questo ciclo di incontri ero partita da una definizione classica: “a corpo libero si genera un movimento che usa il peso corporeo per fornire resistenza alla gravità”. Su questa prima frase, giustamente, sono arrivate alcune critiche e proposte. Un’amica danzatrice, Emilia Guarino, mi ha suggerito di aggiungere che alla gravità talvolta il peso si abbandona: anche il riposo e l’abbandono alla gravità sono un momento della vitale relazione tra questi elementi. Elena Migliavacca mi ha suggerito di modificare con l’idea che il corpo non solo offre resistenza, ma gioca con la gravità. Mi sono sembrate entrambe delle svolte per pensare in modo più preciso cosa significa quando ci muoviamo “a corpo libero” nello spazio sociale e di quali forze abbiamo bisogno.
A corpo libero si genera quindi un movimento in cui il peso fa gioco con la gravità, senza strumenti o legami. Un gesto che non si vincola a una struttura esterna né si potenzia con equipaggiamenti, ma si immerge in un confronto immediato tra la densità del nostro essere e le forze fisiche che governano il mondo. Il ‘corpo libero’ è la disciplina delle ginnaste dalla inaudita capacità di saltare, avvitarsi in aria, fare ruote e capovolte. Il limite del corpo singolare si incontra con la necessità fisica che ordina il mondo, distribuisce i pesi, determina le forze e gli equilibri. Che danza si crea?
Traslando in termini politici: come possiamo abitare i limiti come fossero leve, svincolarci dai discorsi che creano contrapposizioni, dalle dicotomie che influenzano il nostro movimento? Quali forze e dis/equilibri sperimentiamo cercando un posto nel mondo mentre ci confrontiamo con le violenze quotidiane, i sistemi politici-mafiosi, la rigidità delle discipline?
Se penso la mia relazione con la gravità di questo momento storico, il peso che avverto ogni giorno nel petto al sentire le notizie, è il gesto danzante del corpo libero che più si avvicina a dire la qualità della forza che mi abita e agisco. Questa immagine suggerisce che non c’è mai una contrapposizione o una reazione ma sempre una composizione di forze, anche quando si compensano o sembrano opporsi. Il gesto danzante fa apparire la bellezza di questa composizione. Fino a quando penso al mio fare politica come un movimento a corpo libero non ne posso essere schiacciata o annichilita.
Poi la guerra si è fatta sempre più presente e incalzante, ha iniziato a occupare in modo regolare e martellante le notizie quotidiane, e si è fatto sempre più buio.
Sono nata in Sicilia nell’82, sono nata in mezzo alle guerre di mafia. Vivere mentre è in corso una guerra civile di cui non si intravede esito è stata anche una parte della mia storia. La serie tv su Raiplay sulla vita della fotografa Letizia Battaglia, Solo per passione, racconta meravigliosamente quegli anni e io, rivivendoli attraverso questa ricostruzione, mi sono sentita “sua figlia”. Certo la guerra alla mafia è stata una guerra con specifiche caratteristiche da cui poi si è generata una forza femminile specifica. Su questo vi segnalo la recentissima pubblicazione di un libro curato da Gisella Modica e Alessandra Dino Che c’entriamo noi con la mafia, una raccolta di saggi e racconti scritti da donne di diverse generazioni che esprimono al meglio questa specifica forza. Metto quindi a disposizione alcuni pensieri generati da questa genealogia, per dire, a partire da me, come guadagnare un proprio posto in un mondo che è in guerra.
Per farlo riprendo una domanda che mi appassiona da molti anni, almeno da quando mi sono laureata con la supervisione di Valeria Andò all’università di Palermo con una tesi sui modi di nominare la forza e il coraggio nei poemi omerici, indagandoli a partire dalla differenza sessuale. Vi propongo un ragionamento di natura filologica che può schiudere un orizzonte di pensiero utile a pensare i tempi difficili, le divisioni, le contrapposizioni, lo stare in mezzo alla guerra.
Esiste in greco antico una radice molto speciale che è la radice tl-, uno dei modi per dire in greco antico “forza/coraggio” in modo apparentemente paradossale. Secondo gli studiosi ha generato verbi, aggettivi, nomi che hanno a che fare con il sopportare oppure con l’osare: affermano che la netta distinzione che noi poniamo tra il sopportare e l’osare non fosse in fondo essenziale nel greco, soprattutto omerico, e attribuiscono una essenziale ambiguità della radice da tradurre opportunatamente o con sopportare o con osare, come fossero due dimensioni concepite in maniera disgiunta. Tl- non indica solo la dimensione del peso dell’anima (sopportare un’emozione) ma anche delle cose più materiali. Il nome di Atlante, il gigante che tiene sulle sue spalle l’intera volta celeste, viene da questo radicale, talanta, la bilancia, anche.
La traduzione classica di tl- indica che o si ha la forza di essere vittime o si ha la forza di essere eroi/eroine. Nella guerra di mafia, ad esempio, molte donne o uomini che hanno incarnato la forza sono state dipinte e narrate attraverso questa visione dicotomica.
Non credo in una forza che ci divide così. Il radicale tl, se si va in profondità, non racconta della distinzione che gli studiosi vorrebbero tramandarci. Racconta un’altra storia sulla forza, apre un’altra possibilità. Quando ho incontrato questo verbo mi è sembrato subito una pietra preziosa, come potesse tenere insieme due opposti e generare una terza via.
Non si tratta di una forza-coraggio esclusiva dei personaggi femminili, è propria anche di alcuni guerrieri e, in guerra, indica una forza particolare. Sono altre le parole che indicano la forza del guerriero di uccidere, brandire la lancia, affondarla nella carne del nemico (per esempio andreia da aner,andros che significa non a caso uomo maschio in greco antico).
Tlenai viene usato, invece, per tutte quelle situazioni in cui si mette in gioco una forza che trasforma: si manifesta quando la gravità della situazione che si sta vivendo viene “soppesata” grazie a una sua profonda percezione e nello stesso tempo si trova dentro di sé la possibilità di una azione. Quando Luisa Muraro scrive l’agire del patire, dice “c’è un dosaggio da fare ogni volta tra l’azione possibile e la passione inevitabile”: questa è la definizione di forza che più si avvicina al senso di questa radice. L’agire nominato da tl- non è in nessun caso centrato sull’exploit individuale o sulla performance del guerriero; è sempre radicato in una relazione. È una forza che viene giocata tutte le volte in cui la relazione alleato-nemico viene modificata in una situazione non più così dicotomica, quando i personaggi cioè perdono la certezza dei loro ruoli e non sanno più se considerarsi alleati o nemici (per esempio Priamo che va nel campo di battaglia nemico a chiedere il corpo del figlio a chi lo ha ucciso); oppure quando ci si incontra tra stranieri e non ci sono ancora relazioni definite e chiare; quando il guerriero non si reca sul campo di battaglia per attaccare ma per proteggere qualcuno, un compagno ferito per esempio; quando la dea Afrodite, pur di salvare il suo protetto mortale, si lascia ferire. Le dee greche infatti non sono mortali, eppure sono vulnerabili. O ancora, esprime la forza del supplice, del mendicante, il coraggio di Telemaco di andare in cerca del padre.
Questa forza ha un suo nome in greco omerico. Non mi sembra che in italiano esista una parola che la nomini ma certo mi pare ce ne sia un grande bisogno.
Vi invito a ricercarla insieme.
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 La forza delle donne, domenica 12 giugno 2022.