Trovare le parole del piacere femminile – Giorgia Basch
Giorgia Basch
4 Dicembre 2022
If you think you can grasp me, think again:
my story flows in more than one direction
a delta springing from the riverbed
with its five fingers spread
Adrienne Rich1
La mia riflessione parte da un’immagine, un’immagine fatta di parole, quelle di Luce Irigaray. Due labbra schiuse, indice di una femminilità non riducibile al multiplo, che parla in tante lingue e tante voci. Il movimento delle labbra esprime un toccarsi che è scambio costante, «linguaggio che non ha circolarità»2, non organizzato sinteticamente, libertà di azione e movimento, flusso.
L’intuizione di Irigaray apre a una molteplicità senza fine di linguaggi e soggettività che sfuggono allo schema fallocentrico della rappresentazione e al femminile che si fa concetto.
Il piacere delle donne è plurale, diffuso, attraversa e permea tutto il corpo, ne oltrepassa i confini e quelli delle fantasie individuali, si introduce nelle relazioni, approda nelle pratiche collettive. Il piacere della condivisione, della vicinanza, del toccarsi, del fare mondo insieme. Come viverlo in una società che spinge per l’identificazione definita, che ci chiede sempre di scegliere un ruolo, una forma e che una forma la dà anche al desiderio femminile, per renderlo afferrabile tanto quanto il desiderio maschile, rigido, plasmato, visibile?
I nostri corpi sessuati sono ancora troppo spesso ridotti a superficie, che sia essa schermo, fotografia, merce.
Lo scambio delle donne fa funzionare la società patriarcale, ne servono tante, tutte, a ripetizione: il fascino della mancanza sembra dominare l’economia sessuale fallocratica, che spesso coincide con pornografica, e alimentare il desiderio e l’idea (maschile) di piacere femminile è diventato un necessario esercizio di subordinazione per poter continuare a godere e goderne. Come? Ponendo gli oggetti del desiderio in competizione per il raggiungimento di uno standard comune, quello della donna che trae piacere solo procurandolo. In questo scenario la parola delle donne scompare, i corpi si fanno immagine, «immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure», come scrive Rossana Rossanda, e si misurano col «vedersi vista»3, col vedersi godere. Nel concreto, il piacere passa dalla vista piuttosto che dal tatto, dalla seduzione online o in presenza attraverso l’assunzione di ruoli, posture, collocazioni che non possono che rimpicciolirci, sfinirci, anestetizzarci, e allontanarci dal nostro essere donne che è senza confini, senza argini stabiliti.
Lavorando con la pratica visiva come art director e fotografa mi interrogo sempre più spesso sulla questione della rappresentazione, o auto-rappresentazione, dei nostri corpi femminili, e in particolare sull’imposizione da parte della società, delle realtà per cui produciamo, degli uomini, di creare un canone, di aderire a una funzione, ogni qualvolta decidiamo di raffigurarci o raffigurare altre donne, correndo spesso il rischio di riduci più o meno inconsciamente ad oggetto appetibile. Agghindate, sottoesposte, lussuriose, castigate, disponibili, irraggiungibili: transitiamo tra categorie opposte per soddisfare ogni loro fantasia, il loro stato di equilibrio, dimentiche delle nostre eccedenze e pulsioni.
È possibile riappropriarsi del potenziale della rappresentazione, che per me come per altre donne coincide con una passione, e farne uno strumento di liberazione? Non più ruoli imposti ma incarnazioni riconoscibili del nostro sentire presente, diapositive del qui e ora, corpi vibranti, godenti, e con a disposizione una varietà pressoché infinita di configurazioni e scelte, anche contraddittorie. Ritrarci non deve per forza coincidere con una fissità come siamo portate a credere, possiamo essere tanto, tutto, tutto assieme.
Scompaginare l’ordine sociale vigente è immaginabile partendo dal piacere per come lo intuiamo noi, un piacere in cui ci riconosciamo. Il vederci con occhi nostri può aprire all’ascolto con tutti i sensi, aprire a un coinvolgimento pieno. Sensuale.
Il nostro sentire, il nostro sentirci toccate, deve restare la nostra bussola per poter navigare libere in una società in cui non troveremo, e non vogliamo, un posto così com’è. Il cambiamento passa anche attraverso la riscoperta del nostro piacere femminile espanso, dell’erotico4 che si fa eccesso non solo nel sesso, ma nella pratica comune di tutti i giorni, nel fuoco della creatività che alimenta noi e il nostro lavoro, i nostri progetti di vita, che tiene vive le nostre relazioni.
Interrogando in che misura i nostri bisogni sono effetto d’un funzionamento sociale, rimettiamo in gioco la nostra sensibilità, ritorniamo a pensare col corpo. Sottraendoci alla frammentazione e alla mercificazione delle nostre figure e desideri, alle categorie imposte, agli imperativi, pronunciano dei “no”, riprendiamo parola, e lo facciamo disturbando l’ordine del discorso. Auspicabilmente, dando vita a un discorso nuovo. Un parlare donna che non rinuncia ma rivela.
1 Adrienne Rich, “Delta”, Time’s Power: Poems 1985-1988, WW Norton & Co, 1989
2 Luce Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli Editore, 1977 p. 174
3 Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri, 2018, p. 75
4 Mi riferisco alla concezione di erotico di Audre Lorde in Uses of the erotic, 1978